A duecento anni dalla nascita di Friedrich Engels (28 novembre 1820) la casa editrice Feltrinelli decise di festeggiare la ricorrenza pubblicando, nel febbraio del 2021, una nuova edizione del capolavoro “La situazione della classe operaia in Inghilterra” (1845), opera fondatrice tanto del materialismo storico quanto dell’inchiesta sociale sulla condizione degli operai, nello specifico quelli delle fabbriche di Manchester. Mentre in questi giorni l’Inghilterra ha tenuto il mondo intero incollato agli schermi per la morte della regina Elisabetta II, mi sembra utile tornare a riflettere sugli inglesi partendo dal proletariato industriale. Dal lavoro e non dalla rendita. Da una vecchia inchiesta sempre attuale, e non dalle immagini celebrative dei deleteri fasti di un passato imperialista.
Ha senso rileggere il classico di Engels a patto che lo si valuti anche criticamente, in corrispondenza con l’evoluzione della storia sociale del movimento operaio inglese e in funzione dei problemi politici attuali che investono i lavoratori e le lavoratrici di tutto il mondo.
L’Inghilterra del secolo scorso, tra la fine degli anni ‘70 e lungo gli ’80, è stata il grande laboratorio in cui si sono sperimentati (a livello socio-economico) e implementati (a livello statale) tutti i principi del neoliberismo, primo tra i quali la lotta (poi vittoriosa in tutta Europa) alle tutele sindacali. Questo centro sperimentale si è chiamato thatcherismo.
Però l’indebolimento della classe operaia era cominciato qualche anno addietro, quando il sistema produttivo, in recessione, iniziò a rendersi conto di non aver più bisogno di quella stessa forza lavoro nera fatta emigrare dalle colonie dell’impero negli anni ‘50. Da allora in poi, le politiche razziali che presero a progettarsi, con Enoch Powell come assertore più convinto, ebbero come effetto quello di introdurre nella classe operaia inglese e nel sindacato il germe divisivo del razzismo. Su tutti questi punti, il sociologo anglo-caraibico Stuart Hall scrisse pagine significative.
Una lettura attuale e critica de “La situazione della classe operaia in Inghilterra” deve partire da questo punto, dalla relazione tra lavoratori e razzismo. Uno dei capitoli centrali dell’inchiesta è dedicato all’immigrazione irlandese. Da un lato, Engels riconosce che senza lo sfruttamento di questi lavoratori - costretti ad emigrare da un’Irlanda ridotta in miseria dalla secolare dominazione coloniale inglese - l’Inghilterra non avrebbe potuto avere lo sviluppo industriale che ha avuto. Dall’altro, li valuta con un severo sguardo razzista, vedendo nella loro capacità di adattarsi ad ogni condizione avversa (mangiano poco, solo patate; dormono in venti in una stanza; hanno carenze cognitive che consentono loro di svolgere solo i lavori più faticosi; ecc.) una sorta di inferiorità antropologica (gli stessi argomenti saranno usati da Max Weber contro i contadini polacchi impiegati nei territori dell’allora Prussia occidentale per chiederne l’espulsione), causa di una concorrenza spietata nei confronti della classe operaia inglese, operai inglesi disciplinati, concentrati e integri. Engels nella sua valutazione razziale non fa altro che tradurre e dare voce a un risentimento generalizzato tra i lavoratori.
Appare evidente che, nell’Inghilterra del XIX secolo come in quella del XX, il razzismo viene agito dalla classe padronale per dividere i lavoratori sul terreno dell’occupazione e della retribuzione, un razzismo interamente basato sull’appartenenza alla nazione.
Davvero singolare non è tanto l’accecamento antropologico-razziale di Engels di fronte agli immigrati irlandesi, quanto che nella dedica alle “classi lavoratrici di Gran Bretagna” ne abbia lodato la generosità nell’accoglierlo senza averlo “trattato da straniero”. Questa ospitalità a suo parere deriva dalla sostanziale immunità dei lavoratori dai “pregiudizi nazionali” e dall’“orgoglio nazionale”. Sarebbe fin troppo facile segnalare una contraddizione nella classe operaia inglese tra la virtù a costo zero nell’ospitare un immigrato (il tedesco Engels) che non compete sul luogo di lavoro, e uno (l’irlandese) che invece lo fa. Sarei più disposto a vedere, seguendo l’ordine di esposizione dell’inchiesta, che originaria nella classe operaia inglese sia l’ospitalità, e che il razzismo nazionalista nei confronti di altri fratelli lavoratori sia il risultato di un processo vinto dai padroni.
Ridotti nel XXI secolo a concepire la politica solo come partecipazione elettorale, si dimentica che l’unico modo per affermare una politica di massa basata sull’unità delle forze lavoratrici non è quello di chiederne il voto ma di ospitare incondizionatamente e senza speranza di ottenere nulla in cambio (direbbe Derrida) in ogni luogo di lavoro, come in ogni strada e in ogni casa, lo straniero che arriva. Perché “siete qualcosa di più che ‘inglesi’ puri e semplici, membri di una nazione isolata, ho trovato che siete ‘Uomini’, membri della grande famiglia universale dell’umanità, i quali sanno che i propri interessi coincidono con quelli di tutto il genere umano”.