Sopravvivere come persona alle proprie sconfitte, come è accaduto a Gorbaciov, rende meno eroici ma dà la possibilità di una valutazione più meditata.
Parto da qui. In tutti questi trentatre anni succeduti al 1989 le posizioni di quello che è stato l’ultimo leader dell’Urss e del Pcus hanno confermato che la sua non era una svendita, un tradimento, un cambio di campo. Anche sulle vicende più conflittuali, come la guerra in Jugoslavia con i bombardamenti Nato e il conflitto ucraino dalle origini, i suoi pronunciamenti non sono mai stati allineati all’Occidente. Quell’Occidente che ne ha celebrato la morte con pura ipocrisia, dopo averlo tradito sul campo e averne abbandonate le idee, prima di tutte la casa comune europea, nella gestione boriosa di una vittoria che si sta trasformando in una rovina globale. Dico Occidente nel senso politicista del termine, cioè atlantismo anticomunista, divenuto oggi neoatlantismo orwelliano, cioè addirittura postideologico e suprematista.
Oggi, in piena guerra mondiale giocata ancora una volta sul campo europeo, si stanno buttando a mare secoli di storia che avevano parlato di Europa come terra in divenire che lega i continenti, come indicava il mito fondativo della ricerca senza fine della principessa rapita.
Non a caso la tragedia della Seconda guerra mondiale e del nazifascismo si era chiusa grazie ad una grande alleanza mondiale comprensiva del comunismo e dell’Urss euroasiatica. Non a caso da quella vittoria era nata l’Onu. E non a caso la spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre aveva attraversato l’Asia e l’Africa, affrancando storiche schiavitù.
L’idea di Europa che Gorbaciov mette in campo, la casa comune europea, la democrazia mondiale, il disarmo, vuole riaprire la partita globale nel momento in cui avverte che la sua parte, l’Urss, è massimamente in difficoltà. Ma che questa difficoltà prelude ad una ancora più grande che colpirà il mondo intero. È questa visione che non avevano certo quei restauratori che non vedevano l’ora di chiudere la partita con l’Ottobre. E che non hanno, oggi, i dominanti che pure gestiscono un mondo travolto da crisi che si moltiplicano.
Non a caso l’aveva Gorbaciov perché quella Unione sovietica, nonostante lo stalinismo, non era ancora riducibile ad una potenza regionale asiatica, tra declino e autocrazia. Né, d’altro canto, poteva avere una prospettiva economicista di risoluzione della propria crisi, diciamo alla cinese. La spinta propulsiva dell’Ottobre poteva essere esaurita ma la condizione di esistenza di quel soggetto chiedeva, per continuare ad esistere, di ritrovarla.
Si dice, Gorbaciov fu un perdente. Non aveva nessuna possibilità di farcela. Non guardava né al partito né alle masse. Francamente, il rapidissimo precipizio, tra il “golpe” conservatore che lo rimosse e quello ben più sostanziale di Eltsin che rimosse l’Urss, ci dice che l’esaurimento c’era eccome e riguardava proprio il partito e ciò che ancora organizzava. Fare Deng o Putin non era nelle corde di Gorbaciov ma neanche dell’Urss. Direi dunque sconfitto, non perdente. Essere sconfitti non è una colpa, perché altrimenti colpevoli sarebbero il Che morto in Bolivia o Ocalan e Gramsci finiti in carcere.
Il punto è che prima di Gorbaciov erano stati sconfitti Brandt e Palme. Cioè gli ultimi veri socialdemocratici prima che il socialismo europeo cambiasse di segno. E Berlinguer era morto cercando di evitare la sconfitta.
A tre anni dall’89 l’Europa varava Maastricht. Ben presto Clinton si rimangiava gli impegni sul non allargamento della Nato ad Est.
I vincitori hanno continuato a buttare pesi sulla bilancia che conteggia i loro bottini. Mentre noi, i dominati senza più Rivoluzione, siamo piagati socialmente, dalle epidemie, dalle guerre, dal clima violato. E l’Occidente va sulla strada delle democrature. Appunto, democrature versus autocrazie è l’orwelliano che viviamo. Noi, i dominati, i vinti, abbiamo bisogno di ritrovare la nostra Rivoluzione. E certe sconfitte, se le guardiamo in faccia, possono aiutare.
(1 settembre 2022)