La figura di Angelo Guglielmi andrebbe analizzata non tanto per il suo valore “semplicemente” culturale, intendendo per “cultura” quel posizionarsi, individualmente e collettivamente, sul “bordo” degli eventi, indicare i punti di tensione del sistema sottostante, produrre “incursioni” fuori dai paradigmi esistenti e generare “squarci” nelle interpretazioni correnti. In altre parole, l’andare “oltre” l’ordine delle cose esistenti.
Un intellettuale, a mio parere, non si giudica per la “qualità” di quella sua incursione nel “vuoto” sociale. La sua presunta o reale “qualità”, infatti, non può essere giudicata che ex-post, per la capacità che quella sua proposta, la sua rottura, abbia avuto nella generazione di una nuova visione delle cose, nella interpretazione del mondo, nella capacità generativa di un nuovo “senso delle cose”.
Angelo Guglielmi arriva a guidare una rete televisiva in un momento particolare della storia della televisione italiana ed europea. É il momento in cui il paradigma della televisione commerciale (generata negli Usa a cavallo della Seconda guerra mondiale) si impone in Italia e poi nel resto dell’Europa. É il momento del massimo sforzo statunitense di mantenere un’egemonia sulla produzione dell’immaginario collettivo, che era stata imposta al termine della guerra all’Europa intera con gli accordi sulla “occupazione” del tempo delle sale cinematografiche europee (80% del tempo dedicato alla cinematografia a stelle e strisce).
Le leggi di riforma prodotte in ambito cinematografico avevano poi ridotto fortemente l’impatto del cinema, e una nuova tecnologia (la televisione) stava sostituendo nella società il ruolo che la sala aveva svolto per anni. Fu il momento in cui in Italia si produsse la rottura del monopolio pubblico sulla Tv, e arrivarono finanziamenti imponenti per creare la televisione che non c’era, la Tv commerciale che ebbe nel gruppo Fininvest di Berlusconi la sua “killer application”.
La potenza trasformatrice dei linguaggi e del senso comune delle Tv commerciali si abbatté sulla società politicamente più avanzata che esisteva in Europa e, in pochi anni, produsse lo sradicamento delle basi sociali che erano a fondamento della nostra Repubblica.
È in questo frangente che la proposta di una Tv “nuova” ma non “commerciale” incontrò il favore di una fetta di popolazione che era ancora legata ad un rapporto con la realtà fatto di letture critiche e voglia di indagare i nessi, le connessioni profonde delle cose. Guglielmi aveva chiaro questa necessità profonda, che neanche più i residui delle forze politiche organizzate erano in grado di “soddisfare”.
Al tempo stesso, proprio quella proposta di “militanza passiva” che andava a sostituire la diretta partecipazione attiva alla vita politica, indusse ad una separazione netta tra chi “faceva politica” e chi la osservava, anche criticamente, ma ne era ormai tagliato fuori.
La proposta del Partito-Tv, soprattutto in quella fase, rappresentò, paradossalmente, una accelerazione del distacco tra le persone e la partecipazione politica. Non che Guglielmi avesse questo esito in mente o nei suoi progetti. Mancò, nelle strutture politiche del tempo, la capacità di comprensione di cosa fosse l’attacco della Tv commerciale e cosa avrebbe prodotto in termini politici, e si lasciò cullare nell’illusione della sostituzione delle sezioni con un palinsesto.
Di quel tempo rimangono i ricordi di programmi che “facevano schierare”, o che anticipavano letture della società che i partiti, e la sinistra in particolare, stentavano a comprendere. Guglielmi provò a introdurre, nella crisi culturale portata nel corpo sociale dalla Tv commerciale, un antidoto; fatto, però, di una stessa sostanza. E nulla valse a impedire che i frutti di quella rottura dei linguaggi e delle relazioni, tra il sé e la vita prodotta dall’immissione nella società della Tv commerciale, risultassero negli anni ’90.