Questi referendum, promossi per attaccare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, hanno recato danno all’istituto referendario e alla partecipazione democratica dei cittadini.
L’esito del voto sui referendum abrogativi sulla giustizia non lascia dubbi: chi ha promosso i referendum è stato sconfitto. Non è riuscito a portare a votare neppure tutto il suo elettorato. E' la prima volta nella storia repubblicana che dei referendum abrogativi vedono non partecipare al voto 4 elettori ed elettrici su 5. Una sconfitta secca dei promotori. Gli sconfitti ora dovrebbero rendersi conto dei danni che ha provocato la loro iniziativa - strumentale e improvvida – che, per fortuna dell’Italia, è fallita. Questi referendum hanno recato danno all’istituto del referendum e ancora di più alla partecipazione democratica dei cittadini.
Questi referendum sono stati promossi per attaccare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura - principi costituzionali – e con quesiti incomprensibili per la grande maggioranza dei cittadini. L’istituto dei referendum è finito sotto accusa per un tentativo di scaricare le loro responsabilità da parte dei promotori dei referendum, proprio quando ci sarebbe bisogno di usarlo correttamente per favorire la partecipazione attiva dei cittadini a decisioni nazionali di rilievo. Tanto più in questa fase politica confusa, piena di ansie.
Troppi referendum, confusi, illeggibili, palesemente strumentali, allontanano gli elettori dalle urne. In precedenti referendum si è verificata una partecipazione straordinaria perché gli elettori sapevano di contare nelle decisioni da prendere. Non si vede perché non si possa ripetere questa esperienza anche in futuro, con pochi quesiti netti e ben formulati.
La Lega, per cercare di nascondere le sue responsabilità in questa avventura finita male, ha cercato scuse risibili, cercando colpevoli per il fallimento, arrivando ad affermare che ci sarebbe stato un complotto (Calderoli). Balle. Semmai tutto il centrodestra ha la grave responsabilità di avere usato strumentalmente il ruolo istituzionale di nove Regioni, per fare loro promuovere i referendum sulla giustizia.
Si è cercata la scorciatoia di ricorrere alle decisioni prese dai Consigli regionali per “comodità”, ma al prezzo di un pessimo servizio al ruolo delle Regioni, che hanno un loro ruolo istituzionale e che non dovrebbero essere al servizio di scelte politiche dei partiti nazionali. Purtroppo le Regioni in questa occasione hanno dimostrato di avere ben poca autonomia reale e consapevolezza istituzionale.
I referendum sulla giustizia, senza il traino e la copertura dei due referendum radicali sull’eutanasia e sulla cannabis, si sono mostrati per quello che erano, cioè un attacco rancoroso e pregiudiziale verso la magistratura. I problemi da risolvere debbono essere affrontati dal Parlamento nel pieno rispetto dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, scritte nella Costituzione. Elettrici ed elettori hanno compreso la posta in gioco, hanno avvertito i rischi, non si sono fidati e in larghissima maggioranza hanno deciso di non partecipare al voto.
Il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale ha avvertito per tempo il pericolo che l’elettorato venisse spinto verso l’astensione, e per questo ha costituito un Comitato per il No, con l’obiettivo di affrontare la campagna referendaria puntando sulle ragioni di merito di una battaglia politica contro questi referendum.
Non meravigliano gli attacchi di Berlusconi, perfino durante il voto, ai magistrati, perché è grazie al decreto Severino che è decaduto da senatore ed è dovuto andare ai servizi sociali dopo la condanna. Meno comprensibile perché altri lo abbiano seguito in modo subalterno in questa recriminazione sterile.
La scelta del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale è stata di contrastare gli argomenti dei promotori punto per punto. Il complesso dei referendum puntava a fare dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura il bersaglio da colpire, con l’obiettivo di creare le premesse per ulteriori modifiche future, anche della Costituzione.
Questo obiettivo è fallito. La scelta che ha prevalso è stata l’astensione. E’ a questo punto che i promotori dei referendum, pur di non ammettere di avere fatto una scelta sbagliata e improvvida, sono caduti nel ridicolo con giustificazioni improbabili come il presunto silenzio della stampa, pur sapendo che i primi a farsi coinvolgere malvolentieri nella campagna referendaria erano proprio loro.
Di più. Si è tentata un’interpretazione consolatoria del risultato del voto all’interno del 20% di votanti, tentando di proiettarlo sull’intera platea elettorale. Della serie, se avessero votato tutti avremmo vinto. Balle. Qualche giornalista ha provato a fargli eco, ma un silenzio assordante ha ricordato ai promotori che il “non voto” ha stravinto a livelli tali da non lasciare spazio per alcuna giustificazione di questo tipo.
Dopo questo risultato disastroso, la proposta concordata dalla maggioranza con la ministra Cartabia sulle nuove modalità di elezione del Csm è stata approvata, malgrado la rabbia evidente ma impotente dei referendari sconfitti.
Ora è necessaria una valutazione sulla stato della democrazia in Italia. Ci sono grandi ragioni di preoccupazione come la guerra, il ritorno della crisi economica, il senso di impotenza, che finiscono con il creare un divario sempre più largo tra rappresentanti e rappresentati. Il rischio di una crescita dell’astensionismo dal voto è forte. Tanto più che anche l’elezione dei sindaci ha registrato un calo impressionante dei votanti. La crescita dell’astensionismo è un serio problema per la democrazia.
Per le prossime elezioni politiche nazionali ci sono ragioni di preoccupazione in più, legate ai meccanismi di voto. L’attuale legge elettorale nazionale lascia nelle mani dei capipartito la decisione su chi verrà eletto. In pratica questo è un gigantesco meccanismo di cooptazione dall’alto. Per questo il criterio per essere prescelti è la fedeltà, non la qualità.
Questo ha portato ad una crisi sempre più grave di credibilità del Parlamento, che ormai lavora a mezzo servizio, visto che le due camere esaminano i decreti del governo, la maggioranza dei provvedimenti, in modo alternato, una volta il Senato, l’altra la Camera. La Camera che non esamina per prima il decreto può solo confermare la decisione dell’altra. Il risultato è un monocameralismo di fatto, che si aggiunge ai decreti usati senza risparmio, ai voti di fiducia a gogò, ad un uso dei regolamenti parlamentari discutibile. Nei fatti, Il governo è il vero dominus della situazione, in particolare lo è il presidente del consiglio. Una democrazia così funziona male, aprendo sempre di più una divaricazione tra Costituzione scritta e Costituzione di fatto. Bisogna chiudere questa fase e tornare alla normalità delle procedure.
E’ vero che i partiti sono l’altro corno del problema. La loro debolezza, a livelli senza precedenti, è parte integrante della crisi attuale della democrazia italiana. Se la partecipazione al voto continuerà a scendere, il risultato sarà che ci si muoverà tra decisioni dall’alto e rivolte, senza un tessuto democratico faticoso e complesso, ma decisivo per un buon funzionamento della democrazia.
Regole e valori sono le chiavi con cui affrontare questa crisi preoccupante, e i referendum hanno evidenziato non solo il fallimento dell’assalto politico ad un caposaldo della democrazia, come la magistratura, ma anche che il non voto può diventare un serio problema. Il risultato di un astensionismo crescente può essere un grave restringimento della partecipazione.
Bene che siano falliti questi referendum, ma deve preoccupare che la via scelta del non voto possa contribuire a fare crescere l’astensione nelle prossime elezioni nazionali. Questo è un serio problema per la democrazia che va affrontato con la piena consapevolezza che in gioco non c’è solo chi vincerà, ma soprattutto la capacità di fare funzionare una democrazia complessa, capace di risolvere i conflitti e di fare crescere il ruolo delle classi subalterne, prevista dalla nostra Carta Costituzionale.
Per questo è decisivo riuscire ad avere una nuova legge elettorale prima delle prossime elezioni nazionali che favorisca la partecipazione: costruita su due pilastri: proporzionale e parlamentari scelti direttamente dai cittadini.