Il 30 maggio scorso è morto nella sua casa di Trieste Boris Pahor, nato, sempre a Trieste, il 26 agosto del 1913. Più di un secolo di vita vissuto da protagonista e da testimone del “lungo Novecento” in tutti gli entusiasmi, le follie e le utopie che il secolo scorso ci ha portato, e infine capace di affacciarsi sul terzo millennio per vederne e giudicarne gli ulteriori sogni e le inedite sciagure.
Il grande autore triestino di lingua slovena e autore del capolavoro “Necropoli” se ne è andato proprio nell’anno in cui il pianeta sta diventando, tra pandemia, guerra e siccità, una “città governata dalla morte”, una “necropoli”, appunto.
Proprio con “Necropoli”, pubblicato per la prima volta in Italia nel 1997 (trent’anni dopo la prima edizione…) Pahor è diventato scrittore universalmente conosciuto. Questo è uno dei grandi libri dell’antifascismo europeo: militante dell’Osvobodilna Fronta (Fronte di Liberazione sloveno), Pahor viene arrestato il 21 gennaio 1944 dai nazisti, sostenuti dai collaborazionisti sloveni (domobranci), per poi essere deportato e passare in diversi lager tra il 26 febbraio del 1944 e l’aprile del 1945. La cosiddetta “letteratura dei campi” sarebbe meno ricca senza questo testo.
In un articolo in occasione dei suoi 105 anni (“La statua da vivo di un resistente”, Il Sole 24 ore, 26 agosto 2015) Pahor si esprime in questo modo: “…Se potessi fare un appello, chiederei al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, un uomo intelligente che rispetto, di invitare i giovani italiani a leggere il saggio che ho scritto sul numero speciale di Micromega, ‘Ora e sempre Resistenza!’, del 2015 in cui parlo della lotta di liberazione slovena, iniziata prima delle altre, nel 1926, quando gli squadristi ci impedivano di parlare la nostra lingua, di associarci, di avere la nostra letteratura, insomma di esprimerci come popolo. Perché il fascismo è sempre in agguato”.
Ecco la paura che lo ha accompagnato per tutta la vita, la paura che l’orrore nazifascista possa tornare a essere prepotentemente minaccioso: i segnali che egli vedeva, oggi ancora più evidenti, non potevano che farlo, e farci, rabbrividire. Proprio per questo egli continuò a scrivere, a incontrare scolaresche, a moltiplicare le possibilità di un dialogo per poter convincere o allertare fosse anche una sola persona, con un ruolo politico e civile riconosciuto da tutte le cittadine e i cittadini, e dalle autorità più oneste, in Italia e in Slovenia.
Questo orrore radicale nei confronti del fascismo non gli impedì peraltro di essere critico nei confronti di alcuni passaggi della storia del socialismo jugoslavo. In questo ambito si inserisce la polemica che lo unì e poi lo oppose a Edvard Kocbek, intellettuale cattolico (cristiano-sociale) rigorosamente antifascista e schierato con Tito, pur se denunciava la terribile sorte riservata in Jugoslavia, dopo il 1945, a molti croati, sloveni e serbi anticomunisti.
Proprio questo lungo secondo dopoguerra è ancora, soprattutto a Trieste, luogo di una controversa “battaglia della Storia”: e Pahor ne venne coinvolto e accusato di “negazionismo” (delle foibe) dalle destre riunite, moderate ed estreme. Sicuramente non fu sottovoce la sua polemica contro il presidente Ciampi (scrisse Pahor che “la volontà di contare tra le vittime delle foibe tutti i prelevati nel 1945 e addirittura di aumentarne il numero, come fece il presidente Ciampi nel 2002, che definì gli infoibamenti un olocausto, mi sembra un modo non accettabile di ricostruire la storia. In più, legare questa tragedia alla sorte degli esuli istriani non serve a fare chiarezza sui fatti”) e, successivamente, contro il presidente Napolitano (il quale aveva affermato, il 10 febbraio del 2007, che il dramma del popolo giuliano-dalmata fu scatenato “da un moto di odio e furia sanguinaria e un disegno annessionistico slavo che prevalse innanzitutto nel trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica”).
Per queste affermazioni Pahor viene fatto passare per “negazionista”, secondo una moda perversa per cui chi osa affermare qualcosa di diverso dal pensiero dominante non può che essere un fanatico negatore di verità. Se la prima applicazione di questo termine (alla shoah) ha avuto e ha un senso preciso (vedi “Il negazionismo. Storia di una menzogna” di Claudio Vercelli), tutte le altre applicazioni sono state forzature oziose da parte del pensiero dominante e, anche laicamente, squadristico. Pahor con le sue dichiarazioni tentò solo di opporsi al dilagare del revisionismo storico favorito dall’istituzione del Giorno del ricordo. A leggerle bene, quelle dell’autore triestino sono inviti al rispetto della storia e delle vicende della Liberazione, da troppe parti avvilite e insozzate.
In questo breve ricordo non sarà possibile ripercorrere tutta la vita di Boris Pahor e nemmeno tutte le sue ambiguità, ma almeno segnaliamo quella di aver contestato nel 2010 l’elezione a sindaco di Pirano, nell’Istria slovena, del medico Peter Bossman, solo perché originario del Ghana. Però anche questo, che pure è gravissimo, insieme ad alcune posizioni para-nazionalistiche, non fa di lui uno scrittore meno grande.
In realtà tutti i temi da lui sollevati sono ancora sul tavolo: la difesa delle comunità, dei piccoli popoli e delle loro lingue; la lotta al fascismo; la libertà e la democrazia come valori universali e non negoziabili; la forza delle istanze etiche contro ogni autonomia della politica; la forza delle lettere, di una “repubblica delle lettere” capace di accompagnare e indirizzare i destini delle nazioni; la forza della parola contro ogni sopraffazione; e infine la denuncia del rapporto non maturo tra le comunità, in particolare in una Trieste italiana che credeva “che gli sloveni fossero contadinelli puzzolenti di letame, le ragazze slovene una riserva di domestiche (…), nonostante a Trieste fossero attestate ben altre attività…” (in un testo riportato da Dunja Nanut, vedi bibliografia).
Ora leviamo alto il bicchiere della riconoscenza per un uomo il cui insegnamento si rivelerà sempre più indispensabile in un mondo ulteriormente fragilizzato dagli scossoni di questi ultimi anni, di questi ultimi mesi. Il 26 agosto, a Trieste, ricorderemo Pahor, su invito del Comitato per la Pace e i Diritti “Danilo Dolci”, nel giorno del suo compleanno, per la prima volta senza di lui, senza la sua lucidità e senza le sue contraddizioni.
Bibliografia essenziale. Tra le sue opere ricordiamo “Necropoli” (edizione originale 1967; prima edizione italiana 1997 e poi, in versione definitiva, 2008, per l’editore Fazi e con prefazione di Claudio Magris); “Il rogo nel porto” (Zandonai, 2009); “Tre volte no. Memorie di un uomo libero” (Rizzoli, 2009); “Qui è proibito parlare” (Fazi, 2009); “Figlio di nessuno. Autobiografia senza frontiere” (con Cristina Battocletti, Rizzoli, 2012); “Così ho vissuto. Biografia di un secolo” (con Tatjana Rojc, Bompiani, 2013); “Dentro il labirinto” (Fazi, 2011); “Una primavera difficile” (La nave di Teseo, 2016). Illuminante anche il suo saggio “Srečko Kosovel” (Studio Tesi, 1993).
Tra le testimonianze filmate, ci piace sottolineare “In cammino con Boris Pahor” di Ivan Andreoli e Fausto Ciuffi (Fondazione Villa Emma-Ragazzi ebrei salvati, 2009) che, nel volume allegato, propone un saggio di Dunja Nanut, “Boris Pahor: appunti per un itinerario umano e intellettuale” (saggio precedentemente apparso su Qualestoria, XXXVII, 2, dicembre 2009), e un testo di Franco Cecotti, “Il Novecento di Boris Pahor: una cronologia comparata”. Il documentario è rintracciabile su https://www.youtube.com/watch?
Interessante un’intervista del 2021 a cura di Simona Maggiorelli sul settimanale Left (https://left.it/2021/01/23/