“Non riesco a crederci, è il compagno della Cgil con il quale ho lavorato a più stretto contatto, dal 1997 quando mi telefonò per dirmi che era molto contento che, da Roma, mi sarei trasferito alla Cgil nazionale ed avrei lavorato nel suo dipartimento. Abbiamo lavorato insieme fino al 2003, quando lui ha lasciato la Cgil. Ma il rapporto di amicizia e frequentazione politica è continuato fino a qualche giorno fa tramite facebook, Itaca, e l’uscita di “Neosocialismo”, il suo ultimo lavoro.
Abbiamo fatto tantissime cose insieme, ma la cosa più preziosa, che ricordo con le lacrime agli occhi, è che per sei anni, la sera, dopo una lunga giornata di lavoro a Corso d’Italia, andavamo insieme a piedi fino a Termini, dove prendevamo la Metro B in direzioni opposte per andare a casa. Quella lunga camminata era molto impegnativa, non dal punto di vista podistico, ma da quello sindacale, politico e culturale. Temi di confronto ed approfondimento sui quali, altroché camminare, si volava... . Ti prometto che non smetterò di farlo in compagnia del tuo ricordo e dei tuoi libri. Non posso immaginare il dolore di tua moglie e dei tuoi figli. Ciao Luigi Agostini, Ciao Gigi”.
Questo è il post che ho scritto appena è circolata la notizia della morte di Gigi, una “schioppettata” che arriva all’improvviso e ti colpisce in pieno. Avevo appena ricevuto, su “Itaca”, la rassegna stampa ed avevo appena condiviso il suo post, che era una ricondivisione di un articolo di Barbara Spinelli sulla guerra in Ucraina come trappola per l’Europa. L’articolo era vecchio di qualche settimana, ma le ultime notizie sulla guerra, e sulla richiesta di adesione alla Nato di Finlandia e Svezia, lo avevano reso più credibile e lungimirante.
Ormai il contatto con Gigi era virtuale, attraverso i social, su facebook e su whatsapp, che lui aveva imparato ad usare con grande funzionalità politico-culturale. Non eravamo vicinissimi come collocazione politica, lui con Articolo 1, io ormai fuori anche da Si, disilluso sulla possibilità che dai cocci del vecchio si potesse ricomporre la giara della sinistra italiana, sociale e del lavoro.
Infatti, quando mi chiamò per invitarmi a collaborare in questo gruppo di lavoro virtuale, mi disse che Articolo 1 non c’entrava, che era un lavoro extra-territoriale, fuori da ogni confine, in una zona franca di cervelli liberi. Anzi, disse proprio così, l’obiettivo era proprio quello di tenere il “cervello allenato”. Non ho potuto dirgli di no, come era accaduto con il mio trasferimento alla Cgil nazionale nel suo dipartimento.
Mi raccontano che l’arresto cardiaco è avvenuto subito dopo un suo lucido e appassionato intervento all’assemblea romana di Articolo 1, con ancora l’eco degli applausi; ed io lo so per certo che lui avrebbe voluto morire così. Si può dire che questa morte è una sua vittoria strategico-militare.
Nell’ultimo saluto davanti alla Cgil mi hanno emozionato le parole di Riccardo e Roberta, ai quali sono legato da un affetto fraterno, così come mi ha emozionato il silenzio di Maria Luisa, sua moglie, una compagna tutt’altro che dietro le quinte, impegnata nell’associazionismo femminile e femminista.
Poi mi hanno colpito molto le parole di Maurizio Landini che, richiamando la lunga esperienza di Gigi Agostini come dirigente sindacale della Cgil, ha riflettuto sul fatto che lui aveva cambiato incarico ogni 3-4 anni e si era sempre messo a disposizione dell’organizzazione. Poi ha riflettuto sulla sua spiccata propensione pedagogica e per la sua altrettanto spiccata attenzione per la politica dei giovani quadri e dirigenti della Cgil. E ha messo in evidenza le pratiche degenerative di oggi e i punti critici della Cgil, ingessata nel suo gruppo dirigente intorno a una gestione conservatrice del doppio mandato, e dell’assenza di una vera politica dei quadri. Ed ha quasi preso un impegno a metterci le mani nel prossimo congresso della Cgil.
C’è una cosa che proprio non ho condiviso del percorso politico di Gigi. Dopo aver compiuto insieme la traiettoria dei Comunisti unitari verso i Ds di D’Alema, mentre si costruiva il congresso di Pesaro e si misuravano le due opzioni - da una parte Fassino che andava allo scioglimento del partito per fare il Pd, dall’altra il “correntone” con Cofferati, Mussi e Giovanni Berlinguer, che ancoravano il partito (Ds o Sd) a sinistra e al mondo del lavoro - lui improvvisamente si schierò con Fassino.
Quando è capitato di rimproverargli questo passaggio lui sorrideva, con il suo sorriso largo a tutti denti, e gli veniva una battuta cattiva nei confronti di sindacalisti e politici, che lui considerava “gemelli siamesi”: la differenza che passava, nei gruppi dirigenti, fra chi guardava lontano, al futuro, con una visione ampia del tempo e dello spazio, e chi arrivava “appena alle 5 del pomeriggio”. Un modo per dire che c’era poco da scegliere, che lui rifiutava visceralmente, oltre che concettualmente, l’idea delle due sinistre, una moderata e l’altra radicale, lui voleva essere moderato e radicale, anzi non voleva essere né l’uno né l’altro, voleva essere comunista!