Duecentoventuno volontari, 65 automezzi, per lo più piccoli e autofinanziati da quasi 160 organizzazioni cattoliche e laiche, con un obiettivo: partire carichi di 32 tonnellate di aiuti e tornare carichi di quante più persone possibili che debbono lasciare l’Ucraina devastata, per provare a sopravvivere fino a che non torni la pace.
La carovana Stop The War Now ha raggiunto Leopoli con la consapevolezza della propria fragilità: se non possiamo fermare questa aggressione fratricida – è stata la considerazione centrale degli organizzatori, tra cui la capofila Associazione Papa Giovanni XXIII e l’Associazione delle Ong italiane, l’Arci nazionale e la sua ong Arcs, che insieme a Arci Solidarietà di Roma hanno consentito alla mia associazione, Fairwatch, di partecipare alla delegazione romana – allora è nostro dovere stare vicini fisicamente alle vittime, far sentire loro che non sono sole, portare in salvo con noi soprattutto i più fragili, quelli che non avrebbero scampo passando nel Paese anche solo un giorno in più.
I 3708 chilometri percorsi tra pulmini, camper e bus che ci hanno portato a Leopoli, e di lì indietro a Roma, sono una sorta di apprendistato itinerante alla complessità che circonda questo conflitto. L’instabilità climatica, i prezzi insostenibili dei carburanti, l’entusiasmo con cui le persone in Italia salutano la carovana, l’ostilità con cui i soldati alle frontiere polacca e ucraina accolgono la cultura politica che ha motivato questa iniziativa. Ogni borsa viene aperta, ogni vano controllato da capo a piedi, e basta una semplice bandiera della pace al finestrino che un pulmino carico di aiuti viene fermato per ore a un check point, i passaporti ritirati, le motivazioni dei volontari interrogate a brutto muso.
Siamo in un Paese ferito, resistente, ma imbevuto di simboli, parole e prassi profondamente di destra. Non che le nostre radio e tv non lo siano, ma non si possono non vedere le bandiere rossonere di Azov che sventolano da molti balconi, le brigate paramilitari chiaramente riconoscibili tra le truppe regolari, minacciose contro tutto ciò che non sia simile alle proprie aspettative di riscossa armata. Cosa che non rende le sue ferite meno profonde, la sua necessità di aiuto meno stringente, la solidarietà nei confronti di un Paese invaso e straziato obbligatoria. E infatti siamo lì.
Siamo gli stessi che al Forum sociale europeo di Parigi nel 2003 denunciavamo con ambientalisti, pacifisti e femministe russi, polacchi e di molti Paesi dell’Est la crescente repressione in Russia della libertà personali e di parola, la difficoltà anche solo di dichiararsi, in quei Paesi, “non governativi”. Eravamo e siamo al fianco di quelli che hanno chiesto sostegno nella lotta per la demilitarizzazione dei loro Paesi, che hanno rivendicato giustizia per Anna Politkovskaja, e che hanno denunciato, per tempo, come, con il nuovo industrialismo delocalizzato anche dall’Italia con l’espansione dell’Unione europea a Est, si assistesse allo scarico oltreconfine di tecnologie obsolete e al mantenimento di un serbatoio di carbone, gas e nucleare a portata di filiera, quando nei nostri Paesi, i fondatori dell’Ue, ci battevamo faticosamente per una vera conversione ecologica del sistema energetico, produttivo e dei consumi.
Ora la guerra sembra aver cancellato ogni traccia di quelle battaglie comuni, non solo dai giornali, ma anche nella memoria collettiva dei Paesi europei tutti.
Però insieme al cibo, ai farmaci, a una via di fuga, quelle chiese e quelle associazioni ci chiedono ancora di lavorare insieme per un futuro diverso possibile. Con il condizionatore acceso ma senza armi, dove il diritto a non andare al fronte e a dire la propria non si trasformi in una condanna alla gogna o alla morte. Dove quei volontari e quelle realtà che stavano strette, lì e qui, nella cornice nazional-liberista dominante individuata come determinante della loro crescente povertà e oppressione, non siano trattati da disertori della resistenza, ma come sentinelle che indicavano, in tempi non sospetti, le vecchie cause dei conflitti vecchi e a venire, e oggi come ieri sostengono nella solidarietà e nell’accoglienza le conseguenze di scelte altrui.
A Roma, da qualche giorno, in un grande albergo, ci sono cinquanta rifugiati in più. Bimbi, nonne, persino due gattini. Abbiamo condiviso 3708 chilometri di paura, sorrisi, panini e una possibilità di vita. È questa la nostra resistenza. Non ci arruolerete mai.