L’elezione bis del presidente Mattarella rappresenta una nuova forzatura, una pericolosa torsione costituzionale, dopo quella di Napolitano del 2013. Di emergenza in emergenza siamo vicini al disfacimento della democrazia parlamentare e degli assetti istituzionali. Una strisciante riforma costituzionale in atto da tempo.
La rielezione non era inevitabile e non andrebbe considerata un “male minore”, ma una conclusione voluta e cercata da certa cattiva politica, dai mercati finanziari e da poteri e interessi particolari. Certo, meglio Mattarella - persona di alto profilo, capacità e specchiata rettitudine - che Berlusconi o Casellati, o altre figure senza requisiti né qualità.
Ma non siamo per il “tanto peggio tanto meglio”, né ci rifugiamo nel bicchiere mezzo pieno. È con la mediazione al ribasso sui principi e i valori costituzionali, sulle scelte di ordine strutturale su lavoro, fisco, diritti sociali e civili, ambiente e giustizia sociale che il Paese si trova nelle condizioni attuali: socialmente ingiusto, diseguale e arretrato, da cambiare radicalmente.
Il paese reale ha assistito a un vergognoso teatrino messo in piedi da dilettanti, segretari di partito ambiziosi, trasformisti, ipocriti. Si è giocato con le istituzioni repubblicane, si sono utilizzate strumentalmente ipotetiche candidature di donne che, a prescindere dai nomi e dalla provenienza, sono state mandate allo sbaraglio. C’è stato un ruolo complice, nefasto, populista e di pressione “spontanea” esercitato da certi mass media a sostegno di una veloce elezione. Nonostante diversi presidenti siano stati eletti dopo scontri, contrasti interni e tra i partiti, e con ben più chiamate: 21 Saragat, 23 Leone,16 Pertini e Scalfaro. Il tempo speso per l’elezione della più importante carica dello Stato è inferiore a quello dedicato al festival di Sanremo.
In gioco non c’erano le sorti di questo o quel partito, di questo o quel leader, ma qualcosa di più serio per la Repubblica e per il futuro delle giovani generazioni.
Quando si fa un buco nella diga rappresentata dalla nostra Costituzione, si sfondano principi e consuetudini, si sa dove si inizia ma non dove si finisce. Il presidenzialismo, da noi avversato, sta diventando realtà. Non è un caso che Renzi e Meloni lo stiano già riproponendo.
In questa crisi istituzionale e politica non ci sono vinti o vincitori, solo perdenti. Prima l’autocandidatura a Presidente di Draghi, che ha messo a nudo, se ce ne fosse stato bisogno, la sua natura ambiziosa e la sua volontà di fuggire dalle responsabilità di governo; poi la forzatura incostituzionale di intrecciare le sorti del capo dello Stato con quelle del presidente del Consiglio; infine l’abusata retorica sul “bene del Paese”, l’assoluta priorità della stabilità economica e finanziaria garantita dal governo liberista dei “migliori,” voluta dai mercati e dall’Europa.
Siamo sicuri che dietro il bis non ci fosse una regia? Con il bis di Mattarella si consegna per altri sette anni la massima carica dello Stato a un solo uomo, pur degno e integerrimo, che la ricoprirà complessivamente per quattordici anni. Un’eternità. Anche il bis di Giorgio Napolitano fu giustificato dalla paralisi del Parlamento, dopo il siluramento del fuoco “amico” al candidato Prodi. Il presidente Ciampi, 1999-2006, dinanzi alla proposta del bis rifiutò: “A mio avviso, il rinnovo di un mandato lungo un settennato, mal si confà alle caratteristiche proprie della forma repubblicana del nostro Stato”.
L’acclamata saggezza del Parlamento nell’indicare il nome di Mattarella, la sua presunta sintonia con il Paese e l’invocato ritorno al centro della politica sono solo stucchevole propaganda. C’è una crisi sociale, democratica, istituzionale e di rappresentanza, e una disperante incapacità della politica e dei partiti ad affrontarla. Si mettono pezze e si rimandano irresponsabilmente le scelte necessarie, affidandosi al “super uomo” Draghi e al “re” Mattarella. Per il Pd e per alcuni altri tutto questo è una vittoria? Non scherziamo.
Il paese reale continua a rimanere fuori dal “palazzo”; ha mostrato vicinanza e gratitudine a Mattarella, non alla politica e ai partiti. Si è prodotto un danno culturale, etico, fiduciario nel sentire popolare. Cresce la distanza tra il paese reale e i partiti, si incrementa il dato, non più fisiologico, dell’astensionismo e dell’indifferenza verso la politica, soprattutto tra le giovani generazioni. Le elezioni politiche sono dietro l’angolo e non basterà più invitare alla partecipazione democratica e richiamarsi al “voto utile” o al “male minore”.
C’è stato uno spettacolo indegno da parte di una classe politica di scarsa qualità, trasformista e opportunista, priva di senso di responsabilità istituzionale. Una classe politica formata durante la devastazione culturale e politica berlusconiana, eredità pure della scomparsa dei partiti di massa e della loro vitale funzione democratica.
Il voluto mantenimento dello status quo prefigura nuovi scenari: la conclusione del bipolarismo; la costruzione di un nuovo centro ipotizzato da Renzi che trova alleati in Forza Italia e nella formazione di Toti; anche in conseguenza del demagogico taglio dei parlamentari, la probabile approvazione di una legge elettorale proporzionale, con un alto sbarramento. Per il Pd si tratterebbe di mettere in soffitta il pessimo “Rosatellum” renziano, archiviando, per ora, la propensione maggioritaria. Senza mai un’autocritica o una riflessione sugli errori commessi.
La legge proporzionale non viene proposta come fattore di democrazia e pluralismo rappresentativo del Paese, ma di convenienza e funzionalità agli interessi di partito, guardando ai progetti di grande centro e alle future alleanze, per una “nuova” coalizione centrista, sul modello europeo “Ursula”.
Ci si dovrebbe preoccupare della riduzione della rappresentanza e della possibile ulteriore scomparsa della sinistra politica, nella società e a livello parlamentare. Senza una sinistra politica alternativa e di massa, senza radicalità, identità, senza rapporti di forza favorevoli tra capitale e lavoro e una visione generale di futuro non cambieremo il Paese. Va ricostruita la buona politica.
In Italia e in Europa abbiamo assistito a ovazioni trionfali: il duo “salvifico” Mattarella-Draghi, il tandem della stabilità, di garanzia dei mercati e dell’Europa. Ma sulla scena sociale e politica irromperanno altri protagonisti e altre narrazioni: il paese reale, i problemi dei cittadini, dei pensionati, dei lavoratori, dei giovani e delle donne, mai seriamente affrontati.
La forte ripresa dell’inflazione, l’aumento delle bollette di gas e luce, del carburante, dei generi alimentari ed essenziali, le tante crisi aziendali, la disoccupazione giovanile e la precarietà nel lavoro vanno ad aggiungersi alla crisi sanitaria, sociale ed economica che colpisce i ceti meno abbienti. Ancora la crisi viene scaricata sul mondo del lavoro, sulla parte più debole e meno protetta della popolazione, amplificando ingiustizie, diseguaglianze e povertà, discriminazioni di genere e di status. Rimaniamo il Paese con i salari più bassi, con l’orario di lavoro più lungo e con i più elevati livelli di produttività del lavoro.
Noi giudichiamo i governi con autonomia e coerenza, non per le formule ma per il merito, i contenuti, gli indirizzi programmatici, la visione di società. Il governo durerà probabilmente ancora un anno, anche se la campagna elettorale è già in corso. La sua agenda e il suo indirizzo programmatico, compresa la messa a terra dei miliardi del Pnrr, non cambieranno: quelle ingenti risorse saranno prevalentemente indirizzate a beneficio del mercato e dell’impresa; si vogliono lasciare sullo sfondo la realtà sociale e le richieste da noi avanzate.
Il governo Draghi lo abbiamo conosciuto con la finanziaria, con leggi e scelte sbagliate o mancate su questioni nodali come il fisco, la riforma del sistema previdenziale e degli ammortizzatori, la precarietà di vita e di lavoro, le stragi sul lavoro, il lavoro nero e il caporalato, il disinteresse verso il ruolo pubblico in economia e il mantenimento della privatizzazione della sanità e della scuola pubblica.
Un governo che indirizza interventi e risorse in favore dell’impresa e poco o nulla ha realizzato contro il depauperamento del sistema produttivo, la disoccupazione di massa e le delocalizzazioni, inchinandosi alla protervia di multinazionali e Confindustria. Scelte e indirizzi gattopardeschi, contraddittori, sbagliati, persino nocivi rispetto alla transizione ambientale. E la richiesta di mettere fuori legge le formazioni fasciste e naziste, nel rispetto della Costituzione, è finita in fondo al cassetto.
Contro la manovra del governo la Cgil, con la Uil, ha dichiarato lo sciopero generale del 16 dicembre, senza trovare solidarietà in nessuno dei partiti della coalizione governativa. Con lo sciopero abbiamo ridato voce e presenza al mondo del lavoro, rinsaldato il legame con la nostra rappresentanza e riportato in piazza la questione sociale e la nostra piattaforma.
Quella scelta va difesa e valorizzata dandole coerente continuità. La Cgil, troppo timida e afona dopo lo sciopero generale, deve tornare protagonista, senza farsi risucchiare nella destrutturazione - ricomposizione dei partiti. Non per indifferenza verso la politica e i processi istituzionali, ma per un’autonomia sempre più necessaria, coerente e in rapporto con la nostra rappresentanza e il merito sindacale. Un’autonomia rimarcata e agita con la proposta e la protesta di fronte a ogni quadro politico. Senza sconti per nessuno, rifuggendo improponibili supplenze, come dannosi e perdenti “collateralismi” al “centrosinistra”. A ognuno il suo mestiere.
Questo dovrà essere centrale anche nella prossima discussione congressuale. La Cgil non può perdere la sua funzione di rappresentanza degli interessi né recidere le sue radici, che affondano nella migliore storia del movimento operaio e del mondo del lavoro di ieri e di oggi.