Quando Marx iniziò la sua attività intellettuale e politica, gli operai nelle fabbriche europee ed americane erano una frazione molto piccola della popolazione. La maggior parte dei lavoratori era ancora nei campi e non erano in pochi, ai tempi, a credere che ci si dovesse concentrare esclusivamente su di loro, in quanto larga maggioranza. Marx, così come tutto l’ecosistema di cui era partecipe, ebbe la lungimiranza di capire che il conflitto sulla condizione degli operai si sarebbe dovuto giocare d’anticipo, non perché gli operai fossero maggioranza e nemmeno perché fossero i più oppressi, ma per la posizione cruciale e nevralgica che avrebbero detenuto in futuro all’interno del sistema produttivo.
Oggi, sembra sempre più chiaro, questo ruolo spetta ai lavoratori tecnologici. Al netto di scenari, apocalittici ma non impossibili, che scombussolino la supply chain dell’elettronica, l’infrastruttura digitale è destinata a espandere la sua pervasività nell’intermediare tanto il lavoro quanto ogni altro aspetto della vita umana. Sindacalizzare insieme sia chi questa infrastruttura la produce, sia chi ne viene impattato maggiormente, è obiettivo imprescindibile per chiunque ambisca ancora a raggiungere una grande vittoria, e sappia ragionare su tempi storici guardando oltre il proprio orticello.
Le organizzazioni verticali nate per un mondo più lento del nostro fanno fatica ad adattarsi: sindacati tradizionali e partiti sembrano incapaci di cogliere e reagire al cambiamento poiché il ciclo di analisi, strategia e azione in base a cui operano si dipana su tempi troppo lunghi, e qualunque azione arriva quando il fenomeno è già irrimediabilmente cambiato. Questo è un problema generale dei nostri tempi, ma è ancora più vero nel cuore del settore tecnologico che questa crescente rapidità contribuisce a crearla.
Per intervenire in questo scenario, poco meno di un decennio fa ha iniziato a formarsi quello che oggi chiamiamo Tech Worker Movement. Il movimento è composto da una galassia di piccole e medie organizzazioni “alt-labor”, alcune iper-locali e presenti in una singola azienda, altre sparse su tutto il globo come Tech Workers Coalition o Game Workers Unite, con apparizioni anche in Cina nelle forme prese dal movimento 996.icu nelle sue varie iterazioni.
Questo ecosistema è nato e cresciuto negli uffici, nelle mense e nei workshop delle start up americane o delle grandi corporation del tech, connettendosi poi a tutti quei tech worker come i rider o i magazzinieri di Amazon già organizzati a proprio modo. La varietà di metodi e pratiche è grande, ma buona parte di queste organizzazioni condividono gli stessi valori e obiettivi: organizzazione dal basso, pensiero strategico, rottura delle barriere tra lavoratori cognitivi e lavoratori manuali, internazionalismo, empowerment dei lavoratori, oltre alla dovuta dose di antisessismo e antirazzismo, istanze ormai inseparabili da quelle del lavoro.
L’attitudine ecosistemica di queste organizzazioni è andata a definire nel tempo un rapporto abbastanza specifico con sindacati e istituzioni. Non una competizione per sostituirsi a loro, ma una relazione virtuosa in cui gruppi come ad esempio Tech Workers Coalition preparano il terreno, tanto sul piano culturale quanto su quello organizzativo, nelle singole aziende, per permettere poi ai sindacati tradizionali, come Communication Workers of America, di formare rappresentanze sindacali in spazi prima irraggiungibili.
Questa formula viene applicata con ottimi risultati in Usa, da cui ogni mese arrivano notizie di sindacalizzazioni di successo in aziende di cui normalmente leggiamo il nome solamente nella barra degli indirizzi del nostro browser. Tema ormai trattato anche dai giornali generalisti e dalle testate di tecnologia, l’ondata di radicalizzazione dei tech worker è un fatto consolidato e parte della narrativa sul cambiamento del lavoro americano di questi ultimi mesi, insieme alla Great Resignation e al movimento Anti Work.
Si può riprodurre questa formula in Italia? Si può e si deve. Facendo i necessari distinguo dovuti alle caratteristiche del settore tech italiano, anche qui i tempi sembrano maturi per raccogliere il forte malcontento di programmatori, grafici, sistemisti e designer, e utilizzare la forza che per ora mantengono dall’alto della loro forza contrattuale per costruire potere nell’industria tecnologica. Pena perdere l’ennesima congiuntura storica favorevole, e lasciare alla follia degli imprenditori californiani (o delle loro grottesche caricature venete e milanesi) il controllo su un settore determinante per il nostro futuro.