Lettera aperta alle compagne e ai compagni
La nostra piazza di Roma è stata una grande risposta civile e democratica. Ci ha aperto il cuore, ridandoci fiato ed energie per guardare avanti, sapendo che la strada è faticosa e lunga, e le contraddizioni, anche tra chi milita nello stesso campo, vanno affrontate in un confronto collettivo per ricercare sintesi più avanzate. L’esercizio della democrazia richiede pazienza, rispetto reciproco e disponibilità all’ascolto.
Ho scelto la forma inusuale di una lettera aperta, assumendomi la responsabilità di ciò che scrivo, per affrontare un tema che sta divenendo divisivo anche tra noi, in Cgil, e che deve rimanere assolutamente politico e sociale e non di ordine pubblico: il nostro giudizio sul movimento di protesta no vax - green pass e il rapporto che con esso va stabilito, consapevoli come siamo del valore del diritto alla protesta, della libertà di espressione e di manifestazione. Il conflitto tra le idee, gli ideali e gli interessi sociali, in una società democratica, è segno di vitalità, ma bisogna saper distinguere. Quando diviene violenza cieca e premeditata contro sindacati, associazioni, partiti democratici da parte di gruppi che inneggiano al duce, sventolano bandiere naziste, fomentano razzismo e nazionalismo è inaccettabile. Queste forze non hanno diritto di rappresentanza e di parola nel nostro Paese, nel rispetto della nostra Carta costituzionale.
Guardando le immagini della devastazione fascista, come tanti sono stato preso dallo sconforto e da una profonda tristezza. Confesso di aver trattenuto a stento le lacrime, e con la rabbia e la voglia di ribellione, ho provato anche un nobile sentimento di avversione per chi ha compiuto quel gesto, ma anche per chi lo ha sostenuto, appoggiato, applaudito. Hanno identificato la Cgil, non a caso, come nemico privilegiato, non la Confindustria e il governo, che hanno compiuto insieme la malaugurata scelta di introdurre il green pass obbligatorio nei luoghi di lavoro dove, attraverso i protocolli sicurezza, si era conquistato il diritto alla prevenzione contro la pandemia con misure e strumenti adeguati. A differenza di Confindustria e di certi politici di destra, abbiamo avuto come riferimento non l’economia e il profitto, ma la salute e la vita di chi lavora.
Lo stesso giorno della grande mobilitazione antifascista di Roma, oltre 10mila persone, molte delle quali sedicenti di sinistra o appartenenti a frange senza nessun radicamento nel mondo del lavoro, stavano scontrandosi con la polizia che non permetteva loro di raggiungere la Camera del Lavoro di Milano. Poco importa da chi fosse egemonizzata, so però che anche quella manifestazione aveva come bersagli la Cgil, il suo segretario generale, i suoi militanti. Mi pongo una domanda: se la polizia fosse stata colpevolmente ferma, per ordine del questore o chi per esso, come a Roma, se il corteo fosse arrivato sotto la Camera del Lavoro, cosa sarebbe successo? Avrebbero tentato l’assalto scontrandosi con chi la stava presidiando e difendendo la sede?
Mentre si scende in piazza per una fantomatica libertà personale, altri ci stanno chiudendo quella collettiva ristabilendo nel dopo pandemia i nuovi rapporti sociali tra capitale e lavoro, tra finanza e politica, tra le classi sociali. Quelle piazze non sono le mie piazze, la libertà pretesa e urlata non è la mia idea di libertà.
Penso, forte anche dell’esperienza e della storia, che lo sbocco politico del “movimento” no vax, antisistema, protestatario e violento sia a destra. Il suo approccio “culturale” è reazionario, corporativo, divisivo della classe e antisindacale, sebbene in questa fase sociale complessa lì dentro ci sia anche chi non può essere identificato come fascista e si debba cercare di recuperare. Con l’assalto alla sede della Cgil è stato superato ogni limite: uno spartiacque che ci ha riportato indietro nel tempo, fino a temere, di ritorno in treno dalla nostra manifestazione nazionale, dopo decenni di lotte a Milano, di poter essere aggrediti. Quella sera abbiamo dovuto nascondere le nostre bandiere, qualsiasi segno di color rosso: una cosa insopportabile.
In piazza c’era il complottismo negazionista per cui il virus è solo una montatura di potere, le ambulanze viaggiavano senza pazienti a bordo, gli ospedali erano vuoti e i camion pieni di bare erano una messinscena, come la sofferenza, le troppe morti, la strage di un’intera, preziosa generazione di ultra ottantenni, sulle quali pesano tante vigliacche responsabilità. La piazza di chi si crede fuori e immune al virus, e rimuove che, se può manifestare, andare al cinema, in vacanza, a lavorare, se può godersi la vita e quella libertà che la pandemia ci aveva tolto e di cui si riempie la bocca, non è merito suo ma di chi con responsabilità e senso civico si è vaccinato. Intanto nei paesi più poveri si continua a morire, e si lotta per un vaccino, per godere del diritto universale alla cura e alla salute. E pure in Inghilterra siamo già a duecento morti al giorno. Quale tolleranza si può avere, posso avere, dopo aver visto la sofferenza e la morte, verso atteggiamenti così ostili alla scienza, alla solidarietà, così indifferenti alla richiesta di liberalizzare i brevetti oggi in mano a multinazionali che fanno profitti enormi decidendo il destino di milioni di persone.
Questo è il momento di tirare una riga netta e decidere politicamente da che parte stare. Di qua o di là, perché destra e sinistra non sono uguali e l’ideologia della non ideologia nasconde una grande truffa sociale e culturale. L’equidistanza favorisce sempre il potere dominante e la destra.
Non riconosco un movimento che tollera gli insulti alla senatrice Liliana Segre, o chiama “dittatura sanitaria” il dovere civile di vaccinarsi. Un movimento la cui visione corporativa e individualistica è ben rappresentata nei cartelli su cui si legge: “lavoratori contro il green pass e il vaccino obbligatorio”, oppure “solidarietà non alla Cgil ma ai portuali di Trieste”.
C’è a sostegno di questo movimento anche il radicalismo inconcludente di chi, pure di sinistra, vede in ogni protesta la scintilla “rivoluzionaria” della lotta di classe. Il solito abbaglio preso anche sulla lotta organizzata dal Clpt, il coordinamento dei lavoratori portuali di Trieste (circa 200 tesserati su quasi 1500 addetti), nato dal dissenso sui contenuti di un accordo firmato dai sindacati confederali, politicamente vicino alle posizioni corporative e “indipendentiste” di spezzoni della destra sociale che fanno riferimento a Forza Nuova e Casa Pound. Con Trieste istituito in porto franco, in concorrenza sleale con tutti gli altri porti italiani, rivendicano di uscire dal contratto nazionale per un contratto “speciale” dei soli portuali triestini. È la regione dell’autonomia differenziata anche su fisco, sanità, assunzioni: le stesse posizioni del leghismo reazionario, razzista e anticostituzionale. Cosa abbiamo da spartire noi con questo movimento, se non il dovere di contrastarlo con una dura lotta culturale e politica? Siccome penso che la democrazia non si esporta con le armi, penso pure che la lotta di classe non la si esporta trasferendo “avanguardie” esterne nelle lotte altrui. Il livello dello scontro vero è più in alto.
Nel mondo dell’economia globalizzata e interdipendente, al capitalismo, al potere economico italiano non serve più il fascismo in camicia nera o un duce marionetta. Lo scontro di classe non si gioca nelle piazze no vax o dove si muovono le proteste corporative e di interessi particolari. Oggi al sistema serve come presidente del consiglio un tecnocrate, un liberista fintamente interclassista, un moderato normalizzatore; serve modernizzare il sistema per renderlo funzionale, per ridisegnare i poteri lasciando i rapporti sociali tra le classi, la distribuzione della ricchezza, le diseguaglianze profonde inalterate se non peggiorate.
Non a caso il governo Draghi non avanza nessuna vera proposta di riforma, come chiede il movimento sindacale, su fisco, lavoro, pensioni, salari, ammortizzatori sociali, diseguaglianze, beni pubblici, ruolo dello Stato in economia, servizio sanitario pubblico e diritto all’istruzione. Si compete e ci si scontra nel libero mercato, nel sistema capitalistico, sottraendo potere ed egemonia al potere economico e finanziario, alla borghesia conservatrice e reazionaria, al capitalismo onnivoro che distrugge l’ambiente e si sente proprietario della vita e della salute delle persone.
Il vero pericolo è l’instaurazione di una forma distorta di democrazia, autoritaria e aristocratica. Quella “rinascita” indicata dalla P2 di Gelli, volta a trasformare la nostra Repubblica parlamentare in presidenziale, a svuotare il Parlamento, dimezzando la rappresentanza politica, accentrando il potere in mano a un esecutivo e all’uomo solo al comando, relegando in un ruolo consociativo e passivo la rappresentanza sociale del mondo del lavoro.
La Cgil ha storici anticorpi, siamo una barriera in difesa della civiltà e della democrazia, ma il nostro sistema immunitario, dinanzi alla crisi sociale e all’arretramento culturale rischia di soccombere, e per questo dobbiamo immettere nell’organizzazione un forte vaccino che rinforzi la nostra cultura e i nostri valori attraverso una formazione, una pratica e un’azione coerenti col nostro fare ed essere sindacato confederale. Senza mai far venire meno il senso di responsabilità e di appartenenza a un’organizzazione democratica dalle forti radici nel movimento dei lavoratori.