Se nemmeno le fasi più acute della pandemia avevano arrestato il quotidiano, tragico rendiconto di omicidi bianchi e di gravi incidenti sul lavoro, alla ripresa produttiva si sta accompagnando una insostenibile escalation di lutti. In questo terribile contesto, restano francamente incomprensibili, e pericolose sul fronte della sicurezza del e sul lavoro, le motivazioni della sentenza della Cassazione sulla strage ferroviaria di Viareggio. Motivazioni di una decisione che di fatto ha azzoppato una inchiesta e due processi assai approfonditi, costati anni di intenso lavoro.
Una corretta manutenzione avrebbe evitato la strage, questo dice la Quarta sezione penale della Cassazione. Ma non c’era il rischio lavorativo, che avrebbe permesso di evitare la prescrizione di reati come l’omicidio colposo plurimo. Non c’era, almeno secondo i giudici, perché “non vi è dubbio che il datore di lavoro dell’impresa ferroviaria sia tenuto alla valutazione di tutti i rischi derivanti dall’esercizio delle attività di impresa, e quindi anche dei rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori derivanti dalla circolazione di carri dei quali non cura direttamente la manutenzione, destinati al trasporto delle merci pericolose. Ma va escluso che i tragici eventi occorsi a Viareggio abbiano concretizzato un rischio lavorativo, di talché l’eventuale inosservanza dell’obbligo datoriale della valutazione dei rischi non assume rilievo causale”.
Per fortuna, sia il capostazione che i due macchinisti del treno merci che deragliò la notte del 29 giugno del 2009 si salvarono. Ma non c’era per loro il rischio di morire? Da Marco Piagentini, che ha perso moglie e due figli nella strage, parole chiare: “Si è fatta filosofia del diritto per separare il rischio sul lavoro dal rischio di circolazione ferroviaria. Si torna indietro di 50 anni. E non si rispettano le direttive comunitarie”. Aprendo a un ricorso alla Corte europea di giustizia.