Contro i licenziamenti applicare la Costituzione - di Andrea Montagni

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Come dirigente della Filcams Cgil nazionale, ho partecipato a decine e decine di procedure di licenziamento collettivo, fornendo assistenza ai lavoratori come previsto dalla legge 223/91.

Le aziende licenziano perché falliscono, o sono in crisi, o vogliono abbattere i costi del personale, o chiudono. In tutti i casi la legge riconosce il loro diritto di licenziare, anche se le obbliga a ricercare prima un accordo con le parti sociali. Mai viene messa in discussione la decisione finale! Come recita l’incipit del comma 9 dell’articolo 4: “Raggiunto l’accordo sindacale ovvero esaurita la procedura …, l’impresa ha facoltà di licenziare …, nel rispetto dei termini di preavviso”.

Alla fine il processo ha due sbocchi: o un accordo che riduce il numero dei licenziati o il ricorso alla cassa integrazione - che non interrompe il rapporto di lavoro - fino al massimo consentito con un rientro o una nuova procedura di licenziamento collettivo. Posso contare sulle dita di una mano i casi conclusi con la rinuncia dell’azienda a licenziare e la revoca della procedura. Taccio i casi nei quali, per evitare i licenziamenti o ridurne il numero, si accetta il demansionamento e/o la modifica dell’orario di lavoro.

Alla fine, l’attività principale da parte sindacale - quando si riesce a contenere gli esuberi – è quella di monetizzare al costo più alto possibile la scelta dei lavoratori di arrivare ad un accomodamento che consenta a chi accetti il licenziamento di implementare la liquidazione, e di accedere comunque alla Naspi. In genere ogni azienda (e ogni consulente mediamente capace) mette in conto un costo per evitare i contenziosi individuali, perché anche nei licenziamenti collettivi ci sono regole di selezione (articolo 5 della legge 223). Qualora il licenziamento del personale sia parziale, può comportare un contenzioso individuale che si potrebbe concludere - per i lavoratori cui ancora si applica l’articolo 18 - con un annullamento del licenziamento e in ogni caso con una monetizzazione.

E’ una macchina infernale che stritola i lavoratori e condanna il sindacato al ruolo di garante della procedura, impotente a difendere il diritto a mantenere il posto di lavoro.

Unica scelta che la Filcams e spesso anche Fisascat Cisl e Uiltucs fanno, per non condividere il licenziamento forzoso, è quella di non firmare accordi che prevedano licenziamenti senza il consenso degli interessati, anche di un singolo lavoratore, anche a costo di far “saltare il banco” della procedura e non firmare nemmeno per quelli disponibili. Una scelta che talvolta i singoli lavoratori che si sono rassegnati al licenziamento e hanno patteggiato una buona uscita non comprendono più, perché a quel punto diventa una faccenda individuale.

I padroni e parte del mondo sindacale ritengono i licenziamenti parte fisiologica della vita, e che l’unica soluzione sia governare il periodo di disoccupazione tra un licenziamento e l’altro. A noi pare un obiettivo percorribile, per attenuare l’impatto delle procedure di licenziamento per le aziende in crisi, quello di puntare ad accordi di riduzione dell’orario, con una compensazione salariale coperta dagli ammortizzatori sociali (contratti di solidarietà).

Comunque l’opinione di noi sindacalisti classisti è che il licenziamento debba rappresentare un’eccezione determinata da cause oggettive, e che le aziende non possono essere chiuse perché così decide il padrone. Come prevede la Costituzione, la proprietà privata dei mezzi di produzione ha una funzione sociale. La legge dovrebbe proibire i licenziamenti che hanno come obiettivo la sostituzione di lavoratori con altri a costo più basso; dovrebbe impedire di chiudere le aziende sane che hanno mercato, e tagliare manodopera solo per motivi finanziari; dovrebbe obbligare le aziende a dimostrare la veridicità dello stato di crisi e della decisione di ridurre il personale.

La legge dovrebbe assegnare un ruolo attivo di mediazione al ministero del Lavoro e, per le proprie competenze, alle Regioni; non solo notai del rispetto formale delle procedure. La legge dovrebbe sempre privilegiare il ricorso alla cassa integrazione piuttosto che la mobilità: la Naspi recide il rapporto collettivo e trasforma il lavoratore in disoccupato.

Come indica la Costituzione negli articoli 41, 42, 43, se un’azienda privata cessa di svolgere la funzione sociale che le è propria, la legge deve prevederne – quando ne ricorrano le condizioni - la nazionalizzazione totale o parziale, e anche l’affidamento agli stessi lavoratori.

A chi obietta che con questo Parlamento non è possibile, rispondo che il sindacato deve guardare la prospettiva. Un sindacato che lotta può non raggiungere l’obiettivo, ma consolida il suo rapporto con i settori più combattivi del mondo del lavoro. Un sindacato che gestiste l’esistente per realismo è condannato al declino. Per questo bisogna appoggiare risolutamente la lotta dei lavoratori della Gkn: loro hanno chiaro che la soluzione della loro vertenza non è al tavolo del ministero del Lavoro, ma in una battaglia politica per il lavoro che unifichi tutte le vertenze.

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