Sintesi dell’intervento alla tavola rotonda “Carcere e lavoro. I luoghi comuni da smontare, le parole per ricostruire” organizzata da Officine Cgil Parma e Cgil Parma il 22 marzo scorso.
La Costituzione non fa differenza fra lavoratori detenuti e non, tutela il lavoro in tutte le sue forme. In carcere il lavoro è strumento cardine della rieducazione, del percorso di reinserimento delle persone. Per questo deve perdere ogni carattere afflittivo, di sfruttamento, di minore riconoscimento, e stabilire pari dignità e pari diritti: orario, ferie, contributi, salario, e accesso agli ammortizzatori, cosa oggi non scontata, se pensiamo al lavoro che ci vede impegnati, insieme ad Inca Cgil ed Antigone, per garantire il diritto al riconoscimento della Naspi ai detenuti.
Non può essere un obbligo, né un’opportunità, è un diritto/dovere, l’amministrazione “è tenuta a” garantirlo. E non può essere, proprio per questo, declinato come “premio” per chi si è comportato bene, ha tenuto “una buona condotta”.
A questo riguardo, merita un ragionamento specifico il Lavoro di pubblica utilità: nonostante l’abrogazione del lavoro gratuito, la norma consente che i detenuti possano essere utilizzati, in attività cosiddette ‘volontarie’, di pubblica utilità, gratuite. Il lavoro deve essere retribuito, e tutelato, per realizzare la funzione che gli è costituzionalmente assegnata. Con il lavoro gratuito (dovrebbe essere un ossimoro) si va a sottrarre lavoro vero, spesso a quelle cooperative sociali, di tipo B, che un grande ruolo hanno giocato e giocano nell’assunzione di persone ristrette, che si trovano così espulse dal mercato del lavoro, e con il risultato di mettere in contrapposizione soggetti fragili (detenuti, ex detenuti, soggetti svantaggiati).
L’utilità richiamata nella locuzione sembra esserci soprattutto per le amministrazioni che si trovano a poter utilizzare lavoro e lavoratori con minori oneri e minori obblighi, oltreché in maniera assolutamente discontinua.
Il voler far passare, poi, l’adesione ai progetti di pubblica utilità come volontaria suscita quantomeno perplessità: come può essere del tutto libera di scegliere se aderire o meno ad un progetto una persona ristretta, soprattutto se non ha altre possibilità, altre occasioni? Lo stesso articolo 20ter dell’Ordinamento Penitenziario, fra l’altro, prevede che per l’inserimento nei programmi di pubblica utilità si tenga conto delle professionalità dei detenuti…
Insomma, il pensiero che sostiene questa tipologia di lavoro fa sì che abbia ancora quel carattere espiatorio, risarcitorio che oggi dovrebbe invece essere definitivamente superato. E l’assenza di remunerazione e delle normali tutele contrattuali rischia di mettere in discussione il progetto inclusivo di rieducazione e reinserimento sociale, perché il carattere educativo del lavoro in carcere deriva proprio dal fatto che ripropone tutte le caratteristiche del rapporto di lavoro subordinato e contrattualizzato.
I Lavori di pubblica utilità, in carcere, sono attività che nascono e muoiono senza produrre effetti. ‘Si aggiunge alla sanzione qualcosa perché la comunità esterna possa vedere l’effettività della punizione’. Questo, soprattutto in tempi di giustizialismo imperante, in cui si invocano pene esemplari, finanche corporali, e lavori forzati, davvero può contribuire a un arretramento materiale e culturale.
E’ recente la polemica di Nando Dalla Chiesa con il Garante Anastasia, riguardo le critiche da quest’ultimo sollevate su un protocollo di intesa fra Dap, Ater Roma e Regione Lazio, e si colloca proprio in questi confini. L’intervento del Garante era però volto ad evitare che enti pubblici ed istituzioni sfruttino le persone, non corrispondendo loro la giusta retribuzione per il lavoro svolto. Ed infatti, dopo le critiche sollevate, è stato convenuto che quel protocollo debba prevedere percorsi di tirocinio e di inserimento lavorativo retribuito. Se è positivo il coinvolgimento di detenuti in opere di manutenzione di beni pubblici, questo è il senso che gli accordi devono avere: i diritti del lavoro devono essere rispettati.
In conclusione, non possiamo permettere che prevalga quel pensiero che oggi rischia di diventare dominante, per cui le persone ristrette possono e devono avere diritti inferiori, possono ‘marcire in carcere buttando la chiave’, private di ogni diritto. La pena è la privazione della libertà personale, i diritti costituzionali, e individuali, come il lavoro, la salute, l’affettività, devono essere garantiti a tutti, perché il carcere è, deve essere, parte della società civile, e non un corpo estraneo.