Marco D’Eramo, Dominio, pagine 252, euro 19, Feltrinelli.
Fu la Commissione trilaterale nel 1975 a sentenziare che l’avanzata e le conquiste del movimento operaio su scala internazionale avevano determinato un “eccesso della democrazia”, dando così la stura a quella rivoluzione conservatrice che, con gli inizi degli anni ‘80, trovò in Ronald Reagan e Margaret Thatcher i suoi alfieri.
Poi, con la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda, i paladini del libero mercato non incontrarono più ostacoli sul loro cammino, poiché la sinistra socialdemocratica, folgorata dalla “ terza via” teorizzata dal sociologo Anthony Giddens, introiettò l’assoluta centralità dell’impresa e la devastante logica privatizzatrice dello stato sociale. Tanto che le Usl sono diventate aziende, i pazienti clienti, a discapito dell’universalità e della doverosa funzionalità dei sistemi sanitari occidentali, come abbiamo potuto verificare in tempi di sindemia. Per non parlare di quanti, dismessa l’ormai ingombrante identità comunista, hanno immaginato di poter temperare il liberismo, a fronte dell’enfasi sui processi indotti dalla globalizzazione dei mercati e la metamorfosi post-fordista dei rapporti di lavoro.
A quarant’anni di distanza i contraccolpi accumulati sulle condizioni di lavoro e salariali della forza lavoro sono così vistosi e innumerevoli nel tempo che Marco D’Eramo nello splendido libro “Dominio” (Feltrinelli) ci ricorda, con un’ampia e impressionante ricerca sul piano della documentazione, come - al di là del reiterato bombardamento mediatico - viviamo in un contesto tutt’altro che “de ideologizzato”, ove la tanto vituperata lotta di classe non è mai scomparsa.
Anzi, per D’Eramo le classi dominanti hanno combattuto, come recita il sottotitolo del libro, una vera e propria guerra invisibile contro i sudditi, non badando a limiti di spesa e utilizzando paradossalmente le indicazioni contenute nel manuale ufficiale statunitense di controguerriglia. Un manuale che fonda la sua narrazione ricorrendo alle tesi di Louis Althusser a proposito della conquista e gestione degli apparati ideologici di Stato, in particolare la scuola e l’amministrazione della giustizia, nonché al fondamentale concetto di egemonia elaborato, guarda caso, da Antonio Gramsci.
D’altronde, storicamente le grandi famiglie del capitalismo anglo-americano si sono dotate di proprie Fondazioni o hanno finanziato i think tanks (serbatoi di pensiero) con il preciso scopo di produrre idee, o meglio quell’ideologia che, sulla scorta del pensiero di Friedrich August von Hayek e Milton Friedman, premi Nobel per l’economia nel 1974 e 1976, ha dato origine ad una versione estrema del liberismo. Una versione finalizzata ovviamente a dettare le leggi dell’agone politico, attraverso l’idea di Stato minimo o frugale, la diminuzione delle tasse per i ricchi e la loro esenzione per le Fondazioni, l’avversione per qualsiasi azione collettiva di concerto a pratiche brutalmente antisindacali, nonché lo strabiliante ossimoro dell’inquinamento ottimale.
Per affermarsi nella società, tutte queste proposizioni reazionarie avevano bisogno di penetrare nei luoghi deputati alla trasmissione del sapere. Per questa ragione le Fondazioni, che nel 2015 ammontavano negli Usa a 86.203 con un patrimonio di ben 890 miliardi, hanno operato da un lato per smantellare e privatizzare la scuola pubblica, mentre dall’altro hanno finanziato i pensatori conservatori e i loro corsi nel vasto mondo delle università.
La conquista di tutte le università di legge, a partire da quella di Harvard, all’insegna dei corsi fondati sulla dottrina Law and Economics, è quindi risultata fondamentale per garantire al mondo delle imprese una legislazione informata alla razionalità del mercato. Inoltre, tutto ciò spiega come l’opinione pubblica venga quotidianamente plasmata da una vera e propria fede religiosa sulle tanto decantate virtù del mercato, se è vero che dalla culla alla tomba ad ogni individuo viene richiesto di pensarsi e diventare imprenditore di se stesso, poiché è solo dall’autosfruttamento che può derivare il successo nella vita.
Che poi questa narrazione non corrisponda alla realtà materiale, dato che la crescita smisurata delle diseguaglianze tra ricchi e poveri ha determinato una polarizzazione sociale senza precedenti storici, è la colossale rimozione dell’immaginario veicolato dal capitalismo americano. Al contempo, ha poca importanza che il presidente degli Usa sia l’attore Ronald Reagan o il costruttore- megalomane Donald Trump, in quanto, come nell’ultima legislatura, quel che conta è il potere di nomina di membri dichiaratamente reazionari nella Corte Suprema, nella Corte d’Appello e in quelle federali distrettuali, giusto per mutare in senso radicalmente conservatore gli orientamenti della giustizia. Perché, come acutamente D’Eramo segnala, essendo questi capitalisti così ossessivamente anticomunisti, non sorprendiamoci se “il capitale preferisce sempre – per semplice volontà di sopravvivenza – la soluzione fascista a quella socialista”.