La pena detentiva non può essere una condanna a morte, né una condanna alla malattia: la vita in carcere non si può sottrarre al rispetto della dignità e dei diritti delle persone, compreso quello, fondamentale, alla salute.
Da febbraio ad oggi sono aumentati in maniera esponenziale i numeri dei contagi, sia fra le persone ristrette che fra gli operatori. Il report del 7 dicembre del ministero della Giustizia riferisce 958 detenuti positivi al virus, e oltre 800 agenti. Sappiamo che sono morte persone, che sono stati contagiati anche dei bambini. In assenza di dati certi da parte del Dap su quanti siano i tamponi effettuati, e di conseguenza le percentuali delle persone positive, non sappiamo quale sia l’indice Rt in carcere.
Il ministero dichiara, come se questo fosse un dato tranquillizzante, che il 90% delle persone sono asintomatiche. Fuori dal carcere, chi ha avuto un contatto con una persona positiva, anche in assenza di sintomi e in attesa del risultato del test, deve stare in isolamento cautelare. E tutti coloro che risultano positivi al test, seppur asintomatici, devono stare in quarantena. Sono giuste misure di prevenzione a tutela della salute pubblica. Come giustifica il Guardasigilli un trattamento diverso per le persone asintomatiche in carcere? Forse il virus sceglie come comportarsi a seconda del luogo dove si trova?
Abbiamo ripetutamente denunciato, negli anni, quanto il carcere sia un’istituzione patogena, dove le persone ristrette sono costrette a vivere in spazi ridottissimi, spesso inadeguati dal punto di vista igienico, oltre che strutturale, dove è impossibile praticare il distanziamento oggi richiesto a tutti noi. Si continua a pensare al carcere come luogo altro, chiuso, esterno ed estraneo alla società, e non se ne parla. Si rimuove. Dimenticando anche le centinaia di operatori che ogni giorno lo vivono e lo attraversano per lavoro. Quello che vale per le persone fuori, libere, pare possa essere declinato diversamente per le persone ristrette. Dimenticando che la Costituzione afferma che la pena è la privazione della libertà personale, non la sottrazione di dignità e di diritti civili.
Abbiamo chiesto di intervenire in maniera incisiva sulle presenze in carcere, ma non sono stati presi provvedimenti in grado di incidere in maniera significativa sul sovraffollamento. Gli interventi adottati, peraltro strumentalizzati da parte di alcuni politici, sono stati assolutamente insufficienti a una risposta significativa in termini deflattivi.
La Cgil, insieme ad Antigone, Arci, Anpi e Gruppo Abele, ha riaffermato con forza le richieste già avanzate durante la prima fase della pandemia, proponendo alcune misure urgenti al governo ed ai parlamentari della commissione Giustizia. Poche, e semplici: affidamento in prova e detenzione domiciliare per le persone che soffrono di gravi patologie pregresse, su giudizio della magistratura di Sorveglianza; licenze per detenuti semiliberi; estensione della possibilità di detenzione domiciliare (già prevista dalla legge 199/2010 per pene, anche residue, fino a 18 mesi) a residui di pena fino a 36 mesi; fornitura immediata e straordinaria di Dpi adeguati a tutto il personale e alle persone ristrette, sanificazione di tutti gli ambienti.
Non solo le richieste non sono state accolte, ma la detenzione domiciliare è stata subordinata alla disponibilità di dispositivi di controllo elettronici. Vanificando, di fatto, una misura che già di per sé avrebbe coinvolto un numero esiguo di persone, perché i dispositivi sono indisponibili.
La mancanza poi di contatti con i propri cari è pesantissima, sia per le persone ristrette che per chi è fuori. È fondamentale che il diritto alle relazioni affettive venga garantito anche in questa difficile situazione, per esempio aumentando le dotazioni di strumenti adeguati per i colloqui con l’esterno, e potenziando le video chiamate. Va prevista e rafforzata la didattica a distanza, e vanno introdotti strumenti di lavoro che consentano la prosecuzione delle attività, perché lo scopo della pena è e deve restare sempre il recupero e il reinserimento delle persone.
In tutto questo, oltre ai silenzi e alle poche ma fantasiose affermazioni del ministro della Giustizia, colpisce anche il silenzio del ministero della Salute. Dal 2008 la salute in carcere, come è giusto che sia, è competenza del Sistema sanitario nazionale. Ci aspettiamo che anche il ministero della Salute si pronunci sulle condizioni di salute delle persone in carcere, sulle misure per prevenire i contagi, per curare le persone positive al virus, e dica come intende implementare il personale dedicato, che sconta croniche carenze da sempre, al fine di assicurare un’assistenza adeguata, in termini di cura e di prevenzione, anche una volta superata la pandemia.
Non serve costruire nuove carceri. Le risorse del Recovery fund devono essere utilizzate per garantire condizioni di vita dignitose: salute, formazione, affetti, lavoro, misure alternative alla detenzione, provvedimenti in grado di abbattere la recidiva e di rispondere concretamente al dettato costituzionale.