L’esercito marocchino ha invaso il 13 novembre la zona di confine tra il Sahara Occidentale e la Mauritania, nella località di Guerguerat, per allontanare decine di sahrawi che da settimane protestavano contro la pretesa del Marocco di controllare il passaggio tra i due paesi. Dopo 29 anni di cessate il fuoco, che durava dal 6 settembre 1991, l’invasione della zona tampone, profonda 5 chilometri, stabilita dall’accordo militare firmato dal Marocco nel gennaio 1998 con la missione dei caschi blu dell’Onu (Minurso), segna la ripresa della guerra nel Sahara Occidentale.
Il Fronte Polisario ha risposto per autodifesa attaccando le postazioni dell’esercito marocchino lungo il “muro della vergogna”, come lo chiamano i sahrawi, che divide in due il paese da nord a sud e costruito da Rabat a metà degli anni ‘80 per difendersi dall’esercito di liberazione sahrawi. Il Polisario ha dichiarato di essere determinato a combattere fino alla liberazione totale.
La lotta è iniziata nell’ottobre 1975, quando il Marocco ha tentato di occupare interamente quella che allora era ancora una colonia spagnola. Dopo 16 anni di guerra, e dopo che il Polisario ha liberato oltre un quarto del paese e proclamato la Repubblica araba sahrawi democratica (Rasd), l’Onu ha messo a punto, con l’accordo delle parti, un piano che prevede un referendum di autodeterminazione a partire da un cessate il fuoco e dall’invio di caschi blu per sorvegliare la tregua e organizzare il voto.
La zona di Guerguerat, dove Rabat sta ora costruendo un secondo muro adiacente alla frontiera con la Mauritania per impedire l’ingresso di civili sahrawi in provenienza dai territori liberati, è un punto cruciale. Da qui passa, attraverso i territori occupati del Sahara Occidentale, il flusso di merci e persone tra il Marocco e l’Africa subsahariana. Il Polisario non ha mai smesso di denunciare questa situazione, aggravata negli ultimi anni dai tentativi di Rabat di costruire una strada asfaltata nella zona tampone.
Perché proprio adesso Rabat riprende la guerra? Il Marocco non vuole che si metta in discussione quel passaggio strategico che lo proietta nel cuore dell’Africa; la presenza di civili sahrawi testimonia che, secondo il piano dell’Onu, quella zona non è del Marocco, da qui la decisione di riprendere la guerra. Ma Rabat è incoraggiato anche dal fatto che l’Onu è da tempo impotente nel Sahara Occidentale. Il referendum non è stato organizzato, la Minurso, in difficoltà operative a causa del Covid-19 e finanziarie come tutto l’Onu, è sempre meno pronta a interventi efficaci, salvo raccontarlo a fatti avvenuti.
Dal maggio dello scorso anno l’inviato personale del Segretario generale dell’Onu, l’ex presidente della Germania, Horst Köhler, non è più stato sostituito dopo le sue dimissioni. Quell’incarico è sempre stato fondamentale nei tentativi di sbloccare il piano di pace. Il Consiglio di Sicurezza si limita a prolungare di anno in anno la missione dei caschi blu senza prendere un’iniziativa. Mentre, grazie alla minaccia di veto della Francia, la migliore alleata di Rabat, le viene negato, unica missione di pace in attività, il compito di impedire la violazione dei diritti umani nei territori occupati. Rabat ha senz’altro valutato anche il momento favorevole dovuto all’assenza del presidente dell’Algeria, la migliore alleata dei sahrawi, ricoverato da fine ottobre in Germania per il Covid.
Intanto il Marocco, dopo aver ripreso la guerra, ha scatenato la rappresaglia conto i civili sahrawi che vivono nei territori occupati, dove sono ormai una minoranza a causa della politica di colonizzazione demografica di Rabat. Particolarmente presi di mira le attiviste e gli attivisti dei diritti umani, dei media e dei social che tentano di rompere l’altro muro marocchino, quello del silenzio sulle violenze.
I territori occupati sono diventati, per i sahrawi, una prigione a cielo aperto in cui le condizioni sono notevolmente peggiorate dopo la ripresa della guerra. Così a fine novembre la Corte di Cassazione marocchina ha confermato le pesantissime condanne, tra cui otto ergastoli, a 19 sahrawi che hanno animato dieci anni fa la prima rivolta popolare nei paesi arabi, prima ancora di quella tunisina. Allora a Gdeim Izik oltre 20mila sahrawi hanno sperimentato per un mese la libertà di discussione e di organizzazione, prima che l’accampamento venisse raso al suolo dall’esercito di occupazione, l’8 novembre 2010, nel silenzio assordante della comunità internazionale. Silenzio che continua ancora più fragoroso con la nuova guerra.