In principio la legge 230/1962 consentiva il ricorso al contratto a tempo determinato solo in alcune ipotesi tassative (sostituzione lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto, esecuzione di lavori straordinari e predefiniti nel tempo, lavori stagionali); in caso di violazione il contratto si trasformava a tempo indeterminato.
Poi il secondo governo Berlusconi ha abrogato questa legge con il D.lgs 368/2001, introducendo una causale generica (“ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”). Con la legge Biagi (D.lgs 276/2003) si sono introdotte nuove tipologie di lavoro a termine, il contratto a progetto e il contratto di somministrazione. La legge Fornero (n.92 del 28/6/2012), oltre ad intervenire pesantemente sull’articolo 18 della legge 300/1970, ha cambiato di nuovo la disciplina del contratto a termine, stabilendo che un primo rapporto di lavoro subordinato potesse essere acausale, ma con il limite temporale di dodici mesi.
Nell’ambito dei provvedimenti del governo Renzi (Jobs act), il D.lgs 81/2015 (“decreto Poletti”), recependo le istanze dei datori di lavoro, ha liberalizzato il ricorso al contratto a termine, abolendo la causale. Con il “decreto dignità” di Di Maio (D.L. 87/2018) si è ritornati al contratto di lavoro acausale per massimo 12 mesi. Qui finisce, per ora e in estrema sintesi, il gioco dell’oca dei contratti a termine.
Ma probabilmente il giro ricomincerà, perché il contratto a termine è un’arma troppo preziosa nelle mani dei datori di lavoro. Intanto con la decretazione di urgenza dovuta al Covid19 si è stabilita la proroga dei contratti in essere fino al 30 agosto 2020, a prescindere dalla durata pregressa del contratto originario. Giustificato dall’emergenza e allo scopo di prorogare il contratto oltre l’originaria scadenza per permettere ai lavoratori di usufruire della Cig, l’art.19-bis della legge 27/2020 ha previsto la possibilità di rinnovare e prorogare i contratti a tempo determinato nel periodo in cui l’azienda ha sospeso l’attività, ipotesi vietata dalle norme ordinarie, ed ha anche derogato alla previsione di una sosta tra un contratto a termine e la stipula di un altro successivo. Anche il “decreto rilancio” (n.34/2020, art.93) ha previsto la possibilità di prorogare o rinnovare i contratti a termine senza l’obbligo della causale ma solo fino al 30/8/2020, e a fronte della necessità del riavvio delle attività produttive. Inoltre la possibilità di deroga è valida solo per i contratti in essere alla data del 23/2/2020, esclusi quindi i contratti stipulati dopo tale data o conclusi prima. La normativa si affianca a quella del divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo previsto fino al 30/8/2020 (che sembra sarà prorogato, insieme alla Cig in deroga, fino al 31/12/2020).
Questi provvedimenti di carattere straordinario hanno fortemente scontentato il padronato, che chiede di ritornare al regime del tanto apprezzato, da loro, decreto Poletti. Contratto a termine significa, di fatto, estensione del periodo di prova, ricattabilità del lavoratore, divisione tra la forza lavoro, indebolimento dell’azione sindacale, fittizio aumento dell’occupazione. Ridurre il margine di manovra datoriale è fondamentale per ripristinare il fronte di lotta solidale nelle aziende, ed è dunque di primaria importanza mantenere almeno la parziale limitazione reintrodotta dal decreto Di Maio.
Il ricorso indiscriminato al contratto a termine sarebbe una politica di esclusivo favore alle aziende, che a gran voce si appellano alla libertà di impresa di cui all’art.41 della Costituzione, e intendono poter agire in maniera discriminatoria e arbitraria, creando disparità di trattamento e competizione tra gli stessi lavoratori precari, e tra questi e gli stabilizzati. Si dice che le imprese utilizzano il contratto a termine per scegliere i lavoratori più idonei ad essere qualificati, e quindi per creare occupazione stabile “fidelizzata”: spiegazione pretestuosa e priva di fondamento, dato che il periodo di prova è previsto proprio per assolvere tale funzione.
Ultimamente si è aggiunto alla corale del padronato, che invoca a gran voce la libertà e la deregolamentazione del rapporto di lavoro, anche il ministro Gualtieri, e già si parla di abolire le modifiche introdotte al decreto Poletti dal decreto Di Maio senza il limite del 31 agosto (o del 31 dicembre), il tutto in funzione della ripresa economica. Certo le imprese devono produrre beni o servizi, ma di agevolazioni e favori ne hanno già avuti a sufficienza sia per l’emergenza, sia prima con il Jobs act e normative precedenti e connesse.
Se la ripresa dopo il Covid19 deve lasciare ai padroni libertà assoluta di gestire la forza lavoro a scapito del suo valore sociale e dei diritti individuali e collettivi dei lavoratori, in virtù di un presunto ammodernamento del sistema economico e del welfare, la lotta sindacale si deve fare ancora più dura e intransigente, pena l’aggravamento del degrado etico e sociale che già ha caratterizzato il ventennio trascorso.