Sessanta anni fa, a soli quindici anni dalla sconfitta del fascismo, nasceva nel nostro Paese un governo reazionario presieduto da Ferdinando Tambroni e sostenuto in modo determinante dal Movimento sociale italiano. I ministri della sinistra democristiana si dimettevano immediatamente dichiarando tale scenario inaccettabile e pericoloso, ma il Presidente della Repubblica rinviava ripetutamente quel governo così screditato alle Camere, determinando un pericoloso corto circuito politico-istituzionale, mentre i settori più retrivi di Confindustria e della Chiesa cattolica scagliavano quotidianamente le loro invettive contro ogni possibile apertura della Democrazia cristiana a sinistra.
Il Movimento sociale, imbaldanzito per il ruolo che gli si permetteva di assumere, decideva provocatoriamente di tenere il proprio congresso a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza. Riappariva per presiederlo l’ex prefetto fascista Carlo Emanuele Basile, responsabile delle deportazioni di 1.600 lavoratori che avevano preso parte agli scioperi del 1944, e delle tragiche fucilazioni di partigiani e di resistenti perpetrate con gli orrori del Turchino, di Cravasco, della Benedicta. Un tentativo palese di rivincita sulla città che il 25 aprile del 1945 aveva visto il generale tedesco Meinhold firmare la resa nelle mani di un operaio: Remo Scappini.
I pronunciamenti di Umberto Terracini del 2 giugno e l’infuocato comizio tenuto da Sandro Pertini il 28 giugno si levarono contro la scelta inaccettabile di tenere quel congresso. Il giorno 30 giugno lo sciopero generale di Genova, proclamato dalla Camera del Lavoro e condiviso da un ampio schieramento antifascista, ebbe un successo straordinario, e fu seguito da pesanti scontri tra i manifestanti e le forze dell’ordine.
Ci furono nei giorni successivi nel paese altre manifestazioni, culminate con le cariche dei carabinieri a cavallo contro i dimostranti a Porta San Paolo a Roma. Nonostante una dura repressione della polizia che provocò morti a Licata, a Reggio Emilia, a Palermo, a Catania, la proclamazione e la riuscita dello sciopero generale indetto dalla sola Cgil per la giornata dell’8 luglio portò dopo pochi giorni alla caduta del governo Tambroni. Il protagonismo del lavoro aveva modificato le coordinate di fondo del quadro politico.
Nel luglio 1960 antifascismo, lotte del lavoro e per la democrazia si riproposero, si intrecciarono e si rafforzarono vicendevolmente. L’Anpi e la Cgil, alla testa di un ampio schieramento di forze antifasciste e soprattutto di tanti giovani, i ragazzi con le magliette a strisce, contribuirono ancora una volta a far progredire il Paese.
Quella mobilitazione popolare dell’Italia democratica e della Resistenza contro l’Italietta reazionaria, chiusa e bigotta che stava dietro al tentativo di Tambroni permise di ristabilire corretti rapporti tra la società, il ruolo dei partiti, la funzione del Parlamento e il ruolo di arbitro del Presidente della Repubblica, che erano caduti in una sostanziale sospensione del dettame costituzionale.
La destra venne clamorosamente sconfitta. Quei fatti, avvenuti nell’Italia del miracolo economico, determinarono la fine della lunga agonia del centrismo, una formula consunta che impediva l’apertura di una fase politica nuova che avrebbe portato i socialisti nell’area di governo.
Quegli scenari si intersecarono con fermenti sociali innovativi che, a partire dalle lotte degli elettromeccanici per il rinnovo del contratto di settore, sperimentavano le prime iniziative di unità d’azione dei sindacati a Brescia e a Milano. Si sarebbe sviluppata da quei germi la “riscossa operaia” nella quale ha affondato le sue radici l’esplosione dell’autunno caldo del 1969.
Lo straordinario moto popolare che ha impedito il proseguimento dell’avventura reazionaria di Tambroni ha innescato anche delle controreazioni di tipo eversivo. Le destre non avrebbero mai più dimenticato la lezione subita nel luglio ’60, e per svuotare gli effetti delle mobilitazioni popolari sul quadro politico si sono pericolosamente attivate nel corso del decennio successivo. Dal “rumore di sciabole”, alla costruzione di trame e di iniziative eversive promosse da servitori infedeli dello Stato in connivenza con emissari di potenze straniere. Fino all’esplodere di quella strategia della tensione che ha contrassegnato la storia d’Italia con la bomba di Piazza Fontana e con il terrorismo stragista. Ma la democrazia italiana ha saputo vincere quella sfida terribile, e ha saputo andare avanti.