Cuba riparte dopo tre mesi di lockdown, anche se non è mai stato dichiarato un confinamento obbligatorio, ma pare proprio che la parola d’ordine sia prudenza. Anche se il Paese caraibico ha gestito egregiamente la fase acuta della pandemia, registrando solo 2.428 contagiati e 87 deceduti (dati al 13 luglio 2020), il governo non sembra avere fretta, a differenza di molti paesi americani che, pur contando numeri ancora straordinariamente alti di contagi e decessi giornalieri, non fanno che parlare di ripresa e riapertura a tutti i costi, preoccupati più dai valori del Pil che dai morti.
Dal 18 giugno è quindi stato avviato il piano per una graduale riattivazione del Paese, la cui attuazione però è strettamente subordinata all’andamento della diffusione della pandemia. Mentre infatti la maggior parte delle provincie si trova già nella “fase 2”, non presentando contagi da più di 30 giorni, proprio la capitale l’Avana, dove risiede quasi un quarto della popolazione ed è il cuore economico del Paese, con un numero di contagi che ormai non supera i 5-7 giornalieri, si trova ancora nella “fase 1”. Insomma un po’ come riaprire l’Italia lasciando chiusa la Lombardia, tanto per fare un parallelo.
Se lo spettro delle sepolture di massa sembra scongiurato, anche grazie alla fermezza delle autorità nell’applicare rigide misure di contenimento e un controllo attivo sul territorio, quello che preoccupa oggi è la grave crisi economica che la pandemia ha solo esasperato.
Proprio pochi giorni fa leggevo l’ottimo articolo di Roberto Livi sul manifesto, che senza spettacolarizzazioni, ma con senso critico, parlava delle lunghe ed estenuanti code della popolazione per rifornirsi di generi di prima necessità, la cui scarsità si fa ogni giorno più pressante. Se è vero, come sottolinea Livi, che la dipendenza dalle importazioni di alimenti è da sempre una delle debolezze del socialismo cubano, è anche vero che nel momento in cui il “Bloqueo” si è alleggerito, grazie alle aperture del presidente Obama, Cuba ha attraversato un periodo di fermento economico mai visto con il favore del governo.
Cuba però, e molti lo dimenticano, è un Paese con scarsissime risorse naturali e, anche se presenta indici sociali che fanno invidia a molti paesi del primo mondo, non si può dire certo che sia ricco, anzi. I pochi settori economici efficaci, come il turismo, l’industria farmaceutica o quella dei servizi medici, nonché il grande apporto delle rimesse delle famiglie emigrate, con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca sono stati presi di mira con una sequenza di misure restrittive che avrebbero messo in ginocchio qualsiasi altra nazione.
C’è da domandarsi quindi cosa sarebbe Cuba senza il continuo tartassare di limitazioni che spesso assumono contorni quasi perversi, come il bloccare un carico di prodotti sanitari donati dal magnate di Alibaba, o il rifiutarsi di vendere respiratori meccanici per salvare vite. E che dire poi dell’accusa di “trafficare umani”, con riferimento alle missioni dei medici inviate in giro per il mondo, con cui l’amministrazione Trump ha inserito Cuba in una lista nera che ne limita ancor di più l’accesso a determinate risorse e servizi, mentre sono in tanti a chiederne l’assegnazione del Nobel per la pace?
Considerando come questa amministrazione americana tratta i propri cittadini non c’è certo da stupirsi, mentre non si giustifica l’assordante silenzio dell’Unione europea la quale, pure poco tempo fa, ha firmato un importante accordo di collaborazione con Cuba che sancisce la fine di quella diffidenza espressa per tanti anni dalla così detta “posizione comune”. Anche a fronte di continui attacchi alle proprie imprese, con sanzioni e processi extraterritoriali, la Ue pare ancora succube dei dettami Usa, mentre potrebbe diventare la protagonista di una nuova stagione per Cuba e per le sue giuste pretese di autodeterminazione.
Con lo spettro di una crisi economica senza precedenti, Cuba non si scompone e dimostra ancora una volta che il rispetto della vita umana viene prima di qualsiasi cosa, anche a fronte delle pressanti richieste di riapertura del turismo internazionale, oggi permesso solo nei cayos, di agenzie o catene alberghiere che darebbe sì respiro alle esigue casse statali, ma che inevitabilmente porrebbe a rischio la popolazione.
I dati provenienti da molte parti del mondo, del resto, dimostrano che il Covid non è ancora stato sconfitto e, senza essere degli esperti, l’agire con prudenza sembra essere una strategia lungimirante, anche se questo comporta pagare un alto prezzo.