Il tabù della Difesa e della spesa militare in Italia resiste anche al virus covid-19. Mentre il Paese è in ginocchio, in lutto per le oltre trentamila vittime, con una crisi economica e sociale mai vista dalla nascita della Repubblica, il settore militare sembra proseguire imperterrito il proprio programma di investimenti, come se nulla stesse accadendo.
I dati del Sipri indicano che nel 2019 la spesa militare mondiale ha superato il tetto dei 1.900 miliardi di dollari, che confrontati con la spesa per l’aiuto pubblico allo sviluppo dei paesi Ocse (152,8 miliardi di dollari) e con il budget annuale dell’Oms (2,2 miliardi di dollari), indicano, senza ulteriori commenti, dove sono le cause dei nostri problemi e quali sono le priorità di Stati e governi.
Non è casuale che negli Usa l’assistenza sanitaria sia privata ed a pagamento, e che sia più facile ed accessibile avere un’arma piuttosto che una cura o un ambulatorio nei quartieri della low class. La logica dominante è che l’investimento nelle armi e nella guerra sia più conveniente, economicamente e per la sicurezza dei cittadini, piuttosto che investire in sanità e scuola pubblica, formazione, economia pulita e con diritti.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Negli Usa, prima potenza mondiale, un virus ha fatto più morti che la guerra del Vietnam, e ha bruciato più posti di lavoro delle crisi del 1929 e del 2008.
Il nostro Paese è dentro questa logica, ben interpretata dall’alleanza atlantica della Nato, dove il principale azionista, sempre gli Usa, chiede con rinnovata insistenza a tutti gli alleati di portare la spesa militare al 2% del Pil. Non solo, visto che le testate nucleari depositate in mezza Europa sono oramai obsolete, debbono essere rinnovate, quindi tutto l’apparato militare dei Paesi membri deve adeguare i propri mezzi alle nuove generazioni di armi atomiche.
L’alleanza porta però anche vantaggi, ad esempio avere qualche ruolo nell’assemblaggio di strumenti d’arma, in cambio dell’acquisto di un certo numero di esemplari e, chiaramente, di un ruolo, pur anche marginale, di logistica, in una delle varie guerre che ci saranno, perché si sa che ci dovranno essere, vedi Afghanistan, Iraq, Libia, solo per citarne alcune.
Per il nostro Paese, per le nostre tasche, rimanere dentro questo schema e questa politica significa fare molti sacrifici, economici e morali, ma fino ad ora ce l’abbiamo fatta, e si vede. Nel 2020 la spesa pubblica prevista per il settore militare è di oltre 26 miliardi di euro, di cui circa 6 miliardi saranno investiti in nuovi sistemi d’arma. Partecipiamo in diversi modi alla spedizione di “pacificazione” in Afghanistan da oltre un ventennio, abbiamo militari sparsi in diverse località del teatro di guerra medio orientale, da Mosul al Quatar, a richiesta concediamo le basi militari in Sicilia per bombardare la Libia. Comperiamo dei cacciabombardieri a portata nucleare, inaffidabili quanto costosissimi, e in cambio ne assembliamo delle componenti a Cameri. Produciamo anche bombe per la Rwm tedesca, per venderle all’Arabia Saudita che ne fa uso in Yemen, in violazione della legge 185/90. Giorni fa abbiamo anche avuto la notizia che la nostra ammiraglia Cavour finalmente potrà trasportare aerei a portata nucleare, e si incammina verso gli Usa per dimostrare quanto siamo bravi e disciplinati.
Visto che il mercato tira, il nostro settore industriale si è accreditato nel contesto mondiale come uno dei dieci principali produttori di armamenti, e vendiamo armi all’Egitto del generale Al-Sisi, senza che venga fatta giustizia per le torture e la morte di Giulio Regeni. Coerentemente, il governo approva e conferma la “legge Terrestre”, che prevede l’acquisto di nuovi blindati ed elicotteri per l’esercito, per un importo di circa 6 miliardi di euro.
Fermiamoci qua. Ripensiamo alla Costituzione ed ai suoi richiami alla pace, al ripudio della guerra, al dovere di tutti i cittadini di difendere la patria, che non significa prendere le armi ed andare in guerra ma costruire una società giusta, fondata sul lavoro, sulle libertà, sui diritti universali. Guardiamo il Paese, ascoltiamo chi è in prima linea negli ospedali, chi si ritrova senza più lavoro e i figli a casa senza scuola. Dobbiamo ricostruire il Paese, e lo dobbiamo fare meglio di prima, più giusto e più coeso, ripartendo dai bisogni primari e dall’accessibilità dei diritti fondamentali, senza discriminazione di colore della pelle o di passaporto.
Per queste ragioni, Rete della Pace, Rete Disarmo, Sbilanciamoci e ampi settori della società civile e della chiesa chiedono che ci sia uno stop, una moratoria dei nuovi acquisti di sistemi di arma, convertendo i 6 miliardi previsti a favore della Difesa alla ricostruzione del nostro tessuto sociale, dei servizi sanitari ed educativi, del territorio, perché non possiamo più permetterci di inseguire alleanze militari e praticare modelli di sviluppo che si alimentano dalle guerre, e dallo sfruttamento selvaggio delle risorse del pianeta, portandoci verso l’autodistruzione.