L’8 aprile del 1971 si tenne a Londra il Primo Congresso Mondiale Rom. Nacque l’Iru International Romanì Union, furono scelti l’inno Gelem gelem e la bandiera.
Era il 1847 quando il medico ungherese Ignác Semmelweis risolse il problema delle mortali febbri puerperali, imponendo che chiunque entrasse nel padiglione di ostetricia dovesse lavarsi e disinfettarsi le mani. Questa semplice misura abbatté il numero di morti da parto, ma sollevò invidie irrisione e discredito, fino al licenziamento del medico dall’Università di Vienna. Solo nel 1864 Pasteur avrebbe dimostrato la contaminazione batterica, restituendo il merito a Semmelweiss; alcuni documenti del quale l’Unesco ha inserito ora nel registro della Memoria del Mondo.
Ed ecco che in queste settimane di pandemia da coronavirus, che ci vedono tutti reclusi, la semplice raccomandazione, non troppo praticata, di lavare frequentemente le mani, riemerge con la prepotenza di una misura basilare per contenere l’infezione.
Lavarsi le mani, certo! Ma per poter compiere un gesto così semplice di salvezza bisogna avere accesso all’acqua. E due miliardi di persone non lo hanno.
Anche se oggi si viaggia molto e rapidamente dovunque, e il virus viaggia veloce con noi, i diritti, quelli fondamentali, ancora arrancano. E senza andare lontano, anche nel nostro paese, nella nostra città, così civile e avanzata, vi sono persone e gruppi che possono accedere all’acqua solo dalle fontane pubbliche: non hanno una casa, non hanno un lavabo, non possono fare nessuna quarantena. Immigrati, ‘regolari’ o meno, richiedenti asilo non più tutelati, persone senza casa.
La condizione peggiore, la più antica, è quella di rom e sinti.
In Italia rom e sinti sono circa 170-180mila, una cifra che non dovrebbe far tremare il cuore ai governi d’un paese ricco e moderno, uno dei più ricchi al mondo. In più, la grande maggioranza di loro vive come tutti in casa, lavora e manda i figli a scuola. Presumibilmente, a parte un po’ di attivisti e molti giovani, che hanno studiato e stanno prendendo in mano il loro futuro, non si agitano troppo per farsi identificare. ‘Fortuna’ che possiamo salvare l’inguaribile idiozia e il razzismo, a causa dei forse 30mila rom “ospiti” involontari di ghetti tipicamente italiani. Da noi, con tipico senso dell’umorismo, si chiamano “campi nomadi”: ci campano come possono, abbandonati, come si diceva, da dio e dagli uomini (ma non dalla mafia di Roma Capitale), da quaranta e più anni (giusto per il nomadismo).
Tra loro, quei rom profughi dalle guerre etniche in cui affondò, aiutata, la Jugoslavia. Qui giunti, abbandonate le case distrutte o occupate, lì sono finiti, promossi ‘nomadi’, insieme a tutti gli altri, i nostri, fissi in Italia dal 1400! La guerra etnica gliela facciamo noi, ora. Niente spari e stupri, solo una mortale persecuzione, quella del pregiudizio: niente lavoro, casa, salute, scuola. Niente futuro ai bambini.
E chi ce l’aveva il lavoro, l’ha perduto: i sinti giostrai e circensi.
Ma davvero ci conviene?
Quella dell’odierna pandemia è per rom e sinti un’ulteriore emergenza nell’emergenza comune. Se vogliamo stroncare l’infezione, la loro storia non può continuare così. Se non per la comune umanità, almeno per opportunità.
Ce lo insegna il Virus coronato. O ci costringerà. Se non viene debellato ovunque, dalle persone e dalle aree emarginate dove giungesse e potesse sopravvivere, a causa delle condizioni d’igiene e assistenza, poi tornerà a noi.
Non possono dunque più esistere ghetti isolati, per qualunque ragione o mancanza di ragione, luoghi senza diritti. Uno di questi diritti è la salute, per tutti. E gli altri? Lavoro, abitare, istruzione: una domanda urgente e perentoria di giustizia sociale, troppo a lungo negata.
Siamo partiti da Semmelweiss, vittima dei pregiudizi e concludiamo con un popolo intero vittima dei pregiudizi.
Il primo episodio è costato la vita a molte madri solo perché allora i medici ritenevano indecoroso lavarsi le mani. Quest’ultimo, su rom e sinti, dura da troppo tempo e rappresenta un veleno per la democrazia.
Oggi nessuno si permetterebbe di parlar male degli ebrei. Ma finché esiste un popolo emarginato, discriminato e perseguitato, solo in quanto tale, senz’altra ragione, ciò non potrà non richiamare l’unico altro popolo sterminato in quanto tale, gli ebrei. E, peggio, manterrà viva l’“idea” che sia possibile perseguitare senz’alcuna ragione e sterminare un popolo intero. Secondo convenienza.
Così, ci si deve chiedere dove finisce questa fragile democrazia che troppi si affannano a spingere sull’orlo di non si sa quale baratro.
Che ci voglia un virus per restituirci il senso di umanità che dovremmo avere?