Camere semiaperte nel tempo del coronavirus - di Massimo Villone

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La crisi del Covid-19 ha tale portata da non poter essere circoscritta all’ambito sanitario. Investe l’economia, la politica, la società tutta. Anche le istituzioni la subiscono, con una cacofonia di voci spesso contrastanti. Paradossalmente, la voce più flebile, quasi del tutto assente, è stata fin qui quella del Parlamento.

Sin dallo stato di emergenza deliberato dal consiglio dei ministri il 31 gennaio, si è avuto un diluvio di decine tra decreti-legge, decreti del presidente del consiglio (DPCM), ordinanze di ministri, della protezione civile, di governatori, di sindaci. Sul che fare, come, quando e dove il confronto si è svolto tra esecutivi, amministrazioni, esperti. Il Parlamento ha avuto una presenza sporadica e occasionale.

Solo un d.l. (6/2020) è stato finora convertito nella legge 13/2020. Il ministro Speranza ha svolto una informativa il 26 febbraio alla Camera, e il 27 in Senato, con un oratore per gruppo. L’11 marzo sullo scostamento di bilancio alla Camera hanno votato 332, con 300 assenze concordate a priori. Un po’ meglio in Senato, dove 221 hanno votato in ordine alfabetico a scaglioni successivi. Il 24 marzo il ministro Gualtieri è stato audito in videoconferenza dalle commissioni bilancio riunite di Camera e Senato. Solo il 25 e 26 marzo Conte ha riferito alle due camere, in formato bonsai.

Camere semiaperte, o semichiuse. Eppure sono state poste limitazioni gravi e senza precedenti a libertà e diritti costituzionalmente garantiti: la libertà personale, di domicilio, di circolazione, di riunione, di associazione, di culto, il diritto alla salute e all’istruzione, il diritto al lavoro, l’iniziativa economica privata. La Costituzione non prevede esplicitamente uno stato di emergenza, ma certo non impedisce di affrontare l’eccezionalità. Le norme sulle libertà e sui diritti pongono clausole applicabili nella specie: sanità, sicurezza, incolumità pubblica, utilità generale, fini sociali. È costante il richiamo alla legge. Con il decreto-legge ex art. 77 è dato al governo uno strumento volto a fronteggiare situazioni eccezionali, sottoposto al vaglio parlamentare in sede di conversione.

La centralità dell’atto di rango legislativo si traduce in centralità del parlamento. Inoltre, decreti-legge e decreti legislativi delegati sono sottoposti a un vaglio di costituzionalità, sia pure sommario, da parte del presidente della Repubblica che li emana. Per il DPCM non è così. Incidere su libertà e diritti con DPCM significa azzerare garanzie costituzionali. Inoltre, l’afasia delle assemblee elettive azzera la riflessione sul dopo: come ricostruire la sanità pubblica, contrastare le diseguaglianze, ridurre le distanze tra nord e sud, riequilibrare il rapporto tra pubblico e privato nell’economia.

Fin qui, è stato solo creato un vasto corpus juris dell’emergenza, extra constitutionem. Con l’ultimo d.l. 19/2020 del 25 marzo il cambio di rotta è più apparente che reale. L’articolo 1, comma 2 riassume a livello legislativo la lunga lista delle limitazioni possibili (trenta). Ma le scelte saranno comunque adottate con DPCM. Per di più, il ministro della salute potrà intervenire con ordinanza in casi di estrema necessità e urgenza (art. 2, co. 2), mentre le Regioni potranno adottare misure più restrittive (art. 3). In entrambi i casi, “nelle more dell’adozione” dei DPCM e “con efficacia limitata fino a tale momento”. Il fulcro del sistema rimane il DPCM.

Dopo la conversione del d.l. 19/2020, il Parlamento non avrà occasione di incidere sulle scelte di merito. Sarà solo informato sulle misure adottate ogni 15 giorni (art. 2, co. 5). Una maggioranza che non concordasse con quelle misure potrebbe solo minacciare la sfiducia. Uno scenario impraticabile.

Poco, troppo poco. Non basta escludere il voto a distanza. È difficile ritenerlo compatibile con la Costituzione e i regolamenti, ed è soprattutto inaccettabile chiedere a milioni di lavoratori di rimanere al proprio posto e di rischiare la vita per il paese, se i parlamentari non mostrano un eguale coraggio. Ma un Parlamento che non decide alcunché è solo formalmente aperto. Un più deciso richiamo alla necessaria centralità delle assemblee da parte dei presidenti non guasterebbe.

Come i medici sono tutori della salute dei cittadini, così i parlamentari devono essere tutori della salus reipublicae. Diversamente, ha ragione chi vede le assemblee rappresentative come una costosa superfetazione istituzionale resa inutile dalla moderna tecnologia.

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