La prima edizione del concorso in memoria dello scrittore e reporter.
Il 21 ottobre a Roma alla Fondazione Di Vittorio c’è stata la premiazione della prima edizione del premio “Sostegno al Reportage sociale ‘Alessandro Leogrande’”. Il bando, promosso da Flai Cgil, Slc Cgil e Fondazione Di Vittorio, si ispira e si collega idealmente al lavoro intellettuale di Alessandro Leogrande, morto a soli 40 anni nel 2017, scrittore reporter legato per vocazione e passione civile a temi nevralgici della contemporaneità, in particolare alle migrazioni, allo sfruttamento nel mondo del lavoro, alla violenza del potere, autore di libri fondamentali per la comprensione delle trasformazioni in corso come “Uomini e caporali”, “Il naufragio”, “La frontiera”.
La giuria del premio, che ha lavorato su ben trentatré progetti pervenuti, era composta da Simona Baldanzi, Elisa Castellano, Paolo Di Stefano, Angelo Ferracuti, Marco Filoni, Maria Pace Ottieri, Marino Sinibaldi, Nadia Terranova e Alessandra Valentini. La prima edizione è stata vinta da Andrea Bottalico con il progetto di reportage dal titolo: “Porti di scalo. Lavoro e conflitti lungo la filiera del container”. La giuria ha motivato così la scelta: “Un progetto di reportage sociale convincente, strutturato, ampio e non scontato. La tematica delineata suscita interesse e approfondimento: i container racchiudono tutte le merci della vita contemporanea, modificano il paesaggio, sono misteriosi e aperti a sorprendenti scoperte. Considerando i pioneristici e a suo modo coraggiosi lavori di Sergio Bologna, oggi la logistica ha un rilievo cui non corrisponde un lavoro di indagine e racconto adeguato. L’inchiesta presentata è molto dettagliata ed ha un respiro internazionale, si articola in molti luoghi cruciali, da Anversa a Port Said. L’idea di ‘pedinare un container’ è un ottimo punto di partenza per scandire la rotta dei mercantili dall’Asia al Mediterraneo, e raccontare la comunità umana coinvolta ad ogni latitudine”.
La giuria ha valutato positivamente tutti i lavori, e ha dato una menzione speciale ad altri quattro progetti: “I Will Be Your Virtual Girlfriend. Le donne che offrono servizi di cura e assistenza tramite le piattaforme online della gig economy” di Eleonora Numico; “Donne e caporali” di Marta Vigneri e Anna Ditta; “Blues delle capinere. Prostituzione, sfruttamento e tratta fra le Marche e l’Abruzzo” di Mario Di Vito; “Il caporale indossa la tuta blu. Il caporalato nelle aziende metalmeccaniche della Lombardia” di Francesco Floris.
Durante la premiazione sono intervenuti, oltre ad alcuni rappresentanti della giuria, Ivana Galli, segretaria confederale Cgil; Giulia Guida, segretaria nazionale Slc Cgil; Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione Giuseppe Di Vittorio; Giovanni Mininni, segretario generale Flai Cgil. Nel ricordare la figura di Alessandro Leogrande, proprio Giovanni Mininni ha sottolineato il forte legame con la Flai Cgil e la sua attività, che “ha visto coincidere la nostra prima campagna di sindacato di strada, ‘Oro rosso’, con il libro di Alessandro ‘Uomini e caporali’”. Un libro e una campagna che dialogavano idealmente e materialmente tra loro, un libro che rafforzò la denuncia della Flai su cosa fosse il caporalato nel ventunesimo secolo.
“Una collaborazione proficua molto importante – ha ricordato ancora Mininni - che negli anni si è concretizzata nella adesione di Alessandro a nostre iniziative, al Premio Jerry Masslo, e alla partecipazione con suoi contributi per la redazione del nostro ‘Rapporto Agromafie e Caporalato’”.
Vorrei in questo articolo ricordare proprio alcune parole di Alessandro, con le quali definiva il caporalato e anche l’indagine contenuta nel rapporto: “Il caporalato è un fenomeno apparentemente antico che caratterizza tuttora le campagne italiane. Non solo quelle meridionali, dove esso sembra più appariscente, ma anche quelle del centro-nord del paese. Credevamo che tale metodo di ingaggio della manodopera si fosse attenuato nel tempo, invece è tornato negli ultimi quindici-venti anni in forme particolarmente virulente. (…). Si è adeguato e adattato ad alcuni radicali processi sociali in atto, in particolare l’erompere dei flussi migratori; e ha prodotto in molti casi una degenerazione dello sfruttamento in schiavismo. (…). I braccianti stranieri percepiscono le nostre campagne come una “terra di nessuno” con cui non hanno niente a che spartire: una terra di cui non condividono la lingua, non conoscono le leggi scritte e quelle non scritte. (…). C’è una distanza siderale: ogni chilometro ne vale cento; ed è proprio questa estraniazione a generare la profonda vulnerabilità che alimenta lo sfruttamento più crudo”.