Si è appena conclusa la settimana di mobilitazione per il clima, il terzo appuntamento globale, definita la “settimana per il futuro”. Organizzata per fare pressioni sul vertice delle Nazioni Unite del 23 settembre a New York, è culminata nel grande sciopero di venerdì 27 settembre. La Cgil ha organizzato tantissime iniziative, assemblee nei posti di lavoro, dibattiti, incontri nelle scuole.
Le conseguenze del cambiamento climatico hanno già effetti devastanti su milioni di persone del mondo, persone che hanno perso la vita, la casa, la salute, la terra, persone costrette ad emigrare a causa di carestie, alluvioni, incendi. I governi, nessuno escluso, non agiscono. Alcuni continuano a negare l’emergenza climatica come lo statunitense Trump e il brasiliano Bolsonaro; altri continuano ad auto-elogiarsi quali ambiziosi leader del cambiamento. Come il presidente del Consiglio italiano Conte, che ha dichiarato a New York che quello dell’Italia è uno dei programmi di decarbonizzazione più ambiziosi al mondo, o come Macron, che si schiera fra gli ambiziosi ma accusa Greta di essere troppo radicale.
Come possa essere definito ambizioso il programma italiano, Conte lo dovrebbe spiegare meglio, considerato che il nostro paese non ha un piano per la giusta transizione, né per la decarbonizzazione al 2050, ha un piano clima e energia con obiettivi inferiori a quelli europei, e non ha previsto investimenti nemmeno per raggiungere gli inadeguati obiettivi indicati. Intanto le emissioni continuano a crescere. L’Ispra ha stimato che nel 2019 le emissioni di gas serra aumenteranno quasi dell’1%, mentre il Pil dovrebbe scendere dello 0,1% rispetto all’anno precedente.
Nelle ultime settimane le dichiarazioni positive sono cresciute. La nuova presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha sostenuto di voler agire concretamente affinché l’Europa sia il primo continente a impatto climatico zero, proponendo, nei primi cento giorni del suo mandato, un Green Deal europeo con l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050. La Bei ha presentato una proposta che, se approvata, ne farebbe la prima “banca climatica” dell’Unione, cessando di finanziare nuovi progetti legati alle fonti fossili, e interrompendone del tutto i finanziamenti entro la fine del 2020.
Anche il governo italiano, nelle linee programmatiche, ha dichiarato di voler fare dell’Agenda 2030 il suo punto di forza, e di voler mettere al centro di tutti i piani di investimento pubblico la protezione dell’ambiente e la lotta contro il cambiamento climatico. Il nuovo governo ha anche presentato un decreto clima, però fatto subito slittare per mancanza di coperture finanziarie.
Per ora sono solo promesse. Presto vedremo se seguiranno azioni concrete, radicali, trasformative, come ci indica la scienza: cambiamenti senza precedenti in tutti i settori economici e produttivi, nelle abitudini di vita e di consumo, nella società. Vedremo se la nuova politica finanziaria della Bei escluderà nuovi finanziamenti alle fonti fossili, che negli ultimi quattro anni sono stati di 7,9 miliardi. Vedremo se nella prossima legge di bilancio si individueranno le risorse, le politiche industriali, lo stimolo alla ricerca e sviluppo, le politiche fiscali, necessarie per una giusta transizione verso uno sviluppo sostenibile.
Un primo segnale negativo si è già visto nella bozza di decreto clima: si proponeva di ridurre i 19 miliardi annui di sussidi alle fonti fossili, con una prima riduzione del 10% nel 2020, per eliminarli completamente nel 2040. Fuori tempo massimo! Invece non c’è più tempo, restano meno di undici anni per vincere la sfida e contenere l’aumento della temperatura entro 1,5°. Dobbiamo ridurre l’uso delle risorse e allo stesso tempo garantire diritti umani e adeguate condizioni di vita e di reddito ai popoli dei paesi poveri e in via di sviluppo, superando le disuguaglianze.
La soluzione passa solo attraverso un radicale e rapido cambiamento del modello di produzione e di consumo, l’abbandono delle fonti fossili e dell’agricoltura intensiva, una ripartizione equa delle risorse limitate del pianeta, la riforestazione, la transizione ecologica, lo sviluppo sostenibile per tutti. Un cambiamento incompatibile con il capitalismo e il consumismo sfrenato dei paesi più ricchi.
La lotta per la giustizia climatica è anzitutto una battaglia politica, perché il riscaldamento globale ha gravi contraccolpi sui diritti umani, sulla giustizia sociale, sull’equità interna, fra paesi e fra generazioni. È una lotta per la partecipazione, la democrazia e la piena occupazione. Per questi motivi la Cgil è sempre stata impegnata nel movimento per la giustizia climatica, e continua ad esserlo nell’azione sindacale, nella mobilitazione e nelle alleanze con tutte le realtà, associazioni e movimenti impegnati nella nostra stessa battaglia.