La buriana per il momento è passata. Il temutissimo spread è sceso sotto i 200 punti, il che allevia l’onere sui debiti da pagare. Il ministro Tria, da vaso di coccio tra due vasi di ferro, è diventato la nuova star del governo, soprattutto agli occhi dei mercati internazionali. Era partito per Bruxelles solo con l’augurio “io speriamo che me la cavo”, e alla fine il collegio dei commissari europei ha deciso di non infierire, cioè di non raccomandare all’Ecofin l’avvio della procedura per deficit eccessivo contro l’Italia. Il commissario Moscovici ha ritenuto che le tre condizioni poste - compensare lo scarto per il 2018, quello del 2019 pari a 0,3 punti di Pil, e le garanzie sul bilancio del 2020 - sarebbero state rispettate dalle scelte e dagli impegni assunti per iscritto dal governo italiano.
La decisione non sorprende. Era chiaro fin dall’inizio che l’Italia era un paese ‘too big to fail’. D’altro canto, per una Ue già alle prese con il pasticcio della Brexit, caricarsi anche la gestione di una simile procedura sarebbe stato troppo. Nello stesso tempo per la sopravvivenza del governo italiano evitare la procedura era vitale.
Detto questo, non è che la decisione dei commissari sia stato un gentile cadeau. E’ costato eccome. L’hanno chiamato assestamento di bilancio, ma il “decreto salva conti” licenziato dal Consiglio dei ministri è una manovra correttiva a tutti gli effetti, quella di cui Tria ha sempre dichiarato che non ci sarebbe stato bisogno. La sua portata è come minimo di 7,6 miliardi di euro - ma potrebbe arrivare agli 8,2 – ed è in sostanza la cifra che avevamo indicato in precedenti articoli.
Infatti non solo restano congelati i due miliardi di euro destinati alle spese dei ministeri, cosa ormai scontata, ma si destinano in modo diretto ai saldi di finanza pubblica le minori spese derivanti dalle due misure chiave del governo, ovvero il cosiddetto reddito di cittadinanza – che se fosse tale non meriterebbe alcun risparmio, anzi – e Quota 100. Allo stesso scopo si utilizzerebbero le maggiori entrate derivanti dalla introduzione della fatturazione elettronica, dai dividendi delle partecipate (altro che 18 miliardi di privatizzazioni promesse in sede Ue) e della Cassa depositi e prestiti.
Tutto ciò non varrebbe solo per il pregresso, ma pone una pesante ipoteca sul dopo, visto che nella lettera firmata da Conte e Tria ci si impegna a un “aggiustamento strutturale significativo nel 2020”. Ha voglia Salvini di esultare e rilanciare sulla fattibilità della flat tax.
Il “decreto salva conti” inserisce una clausola a garanzia anche per il prossimo anno. Nella manovra dello scorso autunno veniva creato un meccanismo di “vasi comunicanti” per cui le mancate spese per il cosiddetto reddito di cittadinanza sarebbero state dirottate a coprire quelle per Quota 100, e viceversa. Le nuove norme cancellano invece questa possibilità di scorrimento, destinando tutto il risparmiato – visto che i due istituti, come ha detto anche Maurizio Landini, non funzionano affatto - alla diminuzione del debito.
L’assoggettamento del governo pentaleghista all’austerità è quindi certificato. Il furore sovranista è lasciato alla propaganda, mentre nella pratica ci si mette in riga. Né le nuove nomine europee si presentano, almeno in partenza, come più tenere e comprensive. Gli organi di controllo europei sono stati chiari: passeranno al colino fine le misure della prossima legge di bilancio per il 2020.
I problemi rimangono quindi sul tappeto. In particolare la questione della sterilizzazione dell’incremento dell’Iva. Non è un caso che Tria non perda occasione per far sapere quello che in fondo aveva detto fin dall’inizio, e cioè che l’incremento dell’Iva, pur con qualche addolcimento, non sarebbe per lui un dramma. Lo ha ripetuto pochi giorni fa al ‘Sole24Ore’: “Sono sempre stato convinto che l’imposizione fiscale vada riequilibrata, riducendo la fiscalità diretta a favore delle imposte indirette”.
Intanto Salvini si arrampica su un improbabile mix di flat tax e di taglio del cuneo fiscale. Indirettamente ma implicitamente gli dà man forte Nicola Rossi, un tempo deputato del Pd, ora consigliere del centro di ricerca ultraliberista Bruno Leoni, scomodando Luigi Einaudi per sostenere che “anche un’aliquota unica, unita ad un’area di reddito iniziale non tassata … ha un esito moderatamente progressivo”. Peccato per lui che la nostra Costituzione, all’articolo 53, non faccia cenno a esiti finali di meccanismi contorti, ma a principi senza aggettivi diminutivi, affermando con nettezza che “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Non sarà un autunno tranquillo per nessuno.