Si può dire che la parola chiave delle 164 pagine, oltre quelle introduttive, del Documento di economia e finanza (Def) sia “prudenza”. Già nella premessa il ministro dell’economia avverte che “le previsioni ufficiali sono e devono essere di natura prudenziale”. Il che significa che in fondo ha vinto la linea di Tria, la più filoeuropeista nel governo.
Nei giorni scorsi il ministro dell’economia era stato al centro di un tiro al bersaglio da parte dei due dioscuri governativi. Entrambi volevano che si presentasse un quadro ottimistico (d’altro canto Conte non aveva detto che l’anno 2019 sarebbe stato bellissimo?), ben consapevoli che l’esposizione delle cifre reali avrebbe suonato come una campana a morto per la politica economica del governo. Tria ha invece resistito a farsi imporre la solita operazione Matrix, quella cioè di coprire con una pellicola virtuale l’economia reale, convinto che il braccio di ferro con l’arcigna Commissione di Bruxelles non potesse essere fatto partendo con cifre truccate.
Per questi motivi il varo del Def è stato rapidissimo, solo una mezz’ora di consiglio dei ministri, ed è saltata pure la tradizionale conferenza stampa, quasi che si volesse nascondere il Def sotto il tappeto. E in effetti, sulla base delle cifre del Def, il governo “legastellato” ha ben poco da gioire. Solo nel gennaio di quest’anno i documenti ufficiali prevedevano una crescita di un punto percentuale di Pil. E già allora nessuno ci credeva. Ora questo risultato non è nemmeno previsto per il 2022, cui la tabella del Def accredita un triste +0,8%. Per questo 2019 si prevede una crescita limitata allo 0,2%. La differenza quindi tra il quadro tendenziale e quello programmatico, ovvero quello che dovrebbe includere gli effetti delle nuove misure varate dal governo, è minima, per l’esattezza pari a 0,1% in più.
E’ quindi chiaro che al ministero dell’economia nessuno crede alle virtù miracolistiche di incremento della crescita, né del cosiddetto reddito di cittadinanza, tanto meno di quota 100 (come farebbero infatti a spendere di più i “quotacentisti” se l’assegno pensionistico si abbassa?), ma neppure dei tanto decantati decreti “crescita” e “sblocca cantieri”, quest’ultimo giustamente ridefinito dalla Cgil “sblocca porcate”, visto che non farà altro che rendere ancora più insicuro un lavoro che è già causa di tanti morti. Né arrivano certo buone notizie per l’occupazione, visto che il Def prevede un aumento del tasso di disoccupazione dal 10,6% del 2018 all’11% del 2019, con tendenza peggiorativa per l’anno successivo.
In un quadro di questa natura il famoso deficit, oggetto di tanta contesa con Bruxelles nei mesi scorsi, è destinato a salire al 2,4%, ma non per un aumento della spesa in investimenti, quanto per l’assistenza all’accresciuta disoccupazione e per le minori entrate fiscali. A quest’ultimo riguardo il Def si mantiene vago su un punto che invece è decisivo per il governo, ossia la flat tax. Quando ne parla, dopo un fugace accenno nella premessa, lo fa in termini negativi, considerandola, assieme alla sterilizzazione delle clausole sull’Iva, come la causa di minori entrate per circa 47,5 miliardi nel triennio 2019-2021. In realtà è già in corso una controriforma strisciante del sistema fiscale, attraverso la moltiplicazione delle imposte sostitutive che smantellano l’Irpef. Ma naturalmente di questo il governo non parla.
Il Def ribadisce l’intenzione di non procedere ad aumenti dell’Iva. Ma allora il deficit 2020 non sarebbe del 2,1%, come dice il Def, ma almeno del 3,1%. Solo che allora l’inflazione diventerebbe pari all’1% (e non al 2% come dice il Def). Conseguentemente il rapporto tra debito pubblico e Pil non scenderebbe di 1,3 punti (da 132,6 nel ’19 al 131,3 nel ’20, come scrive il governo) ma al contrario salirebbe di un +0,7%. Insomma, anche con tutta la prudenza che Tria ci ha messo, i conti non tornano.
D’altro canto Tria insiste nella contrarietà all’introduzione di una tassa patrimoniale soggettiva, come ha riproposto recentemente Maurizio Landini, nella convinzione che non vi sarà bisogno di una manovra correttiva di sette o otto miliardi, che pare invece tanto più probabile quanto impopolare. Ma a guardare bene una correzione c’è: infatti la Legge di bilancio contiene una clausola che, in caso di deviazione dall’obiettivo di indebitamento netto, prevede il blocco di due miliardi di spesa pubblica. Sulla base di queste cifre il discostamento dall’obiettivo è ormai provato. Quindi, afferma il Def: “Il governo attuerà tale riduzione di spesa”.