Il ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca ha pubblicato recentemente e ancora solo on-line il rapporto sulla “Storia dell’educazione alla legalità in Italia”, scritto da un gruppo di ricercatori e ricercatrici dell’ “Osservatorio sulla criminalità organizzata” dell’Università di Milano, presieduto dal professor Nando dalla Chiesa (scaricabile su www.cross.unimi.it). Ne è uscito un quadro ricchissimo e palpitante del lavoro svolto nelle scuole italiane dal 1980 (delitto Mattarella e nascita dell’educazione alla legalità con la legge 51/80) ad oggi, il quadro di una scuola generosa e responsabile, capace di andare oltre il dovere burocratico.
Riprendiamo le parole di Nando dalla Chiesa, che ha stilato l’introduzione e l’appassionato epilogo: “Un grande fiume pedagogico scorre nel cuore della società italiana, fatto di corsi speciali, di assemblee, film, libri, spettacoli teatrali, auto produzioni di filmati e documentari, composizioni musicali, concorsi artistici, in un rincorrersi di invenzioni e di progetti educativi. (…) Fare antimafia a scuola era spesso considerata una perdita di tempo e ancor più un frutto di strumentalizzazione politica, così da generare vere e proprie scelte di ostruzionismo informativo”.
I risultati della ricerca raggiungono la dimensione di storia civile: “E’ anche una storia di istituzioni e di comuni, di teatri e librerie, di intellettuali e di associazioni, a partire da Libera. Storia sociale e culturale, insomma”. E sottolinea il ruolo svolto dai tanti personaggi-testimoni con i quali la scuola ha stretto un significativo ed efficace rapporto con la società, assumendone la presenza educativa a contatto diretto con gli studenti: “Questo progetto è stato un atto di giustizia non retorico, verso la scuola italiana. Il gruppo di ricerca ha sentito l’orgoglio di averla potuta rivivere e raccontare”.
I futuri progetti di educazione alla legalità perdono un certo senso di pionierismo, per inserirsi in un alveo ricchissimo di spunti e percorsi già sperimentati. Un’altra riflessione si fa strada nel contesto scolastico per la legalità che vede a maggioranza docenti donne: la scuola è il settore istituzionale dove il lavoro di cura e il rapporto madri-figli viene riproposto attingendo alla norma sociale della trasmissione delle tradizioni, della cultura e dei modelli di comportamento di una società. Spetta quindi alle donne, che ne siano consapevoli e comunque di fatto, considerare la loro essenza di umanità da proteggere, attivare modalità e strumenti per opporsi alla criminalità che uccide i loro uomini e loro stesse.
Di questi comportamenti, variegati a seconda del contesto in cui sono avvenuti, hanno dato prova le madri storiche, da Francesca Serio (madre di Salvatore Carnevale) a Serafina (madre di Carmelo Battaglia), a Felicia Bartolotta Impastato (madre di Peppino). Altre donne, dalla criminalità ferite a morte negli affetti più intimi, hanno rotto col ruolo di depositarie e perpetuatrici della cultura della sudditanza e della vendetta, in cui erano state addestrate. Sono comparse sulla scena le cosiddette “madri coraggio”, a sostenere con la loro scelta ribelle e legalitaria il processo politico di emancipazione femminile. Molta letteratura attuale ripesca nella storia di vita delle donne il nucleo profondo del senso di ingiustizia personale e politico, unito al ricorso alla legalità che, come a Francesca Serio, fu negato nei tribunali dopo annosi dibattimenti e deviazione di indagini.
L’antimafia non è una commedia recitabile, perché è obbligatorio riconoscere che la mafia è un pezzo di borghesia, cioè di classe dominante, e che l’intreccio legale/illegale è la chiave di volta del sistema di potere mafioso. Si ricordi che il processo di consapevolezza inizia nella tragedia greca con la giovane Antigone, prosegue nell’antimafia con la giovane Rita Atria, collaboratrice di Borsellino, e con tante altre.
Per l’oggi il pensiero va al tenace lavoro di mobilitazione e coinvolgimento vissuto da Ilaria Cucchi, che è riuscita in tribunale a mettere il dito nella piaga dell’istituzione militare che le ha ucciso il fratello. Non da meno hanno fatto le altre donne mogli, figlie (e figli) dei civili assassinati nell’esercizio del lavoro, come Pina Maisano moglie di Libero Grassi, combattente in parlamento, così Rita Borsellino, per non parlare delle molte fondazioni dai nomi famosi, sorte a sostegno della legalità.