La manifestazione del primo dicembre a Roma: un percorso insieme alle tante soggettività, piccole e grandi, che popolano e animano la capitale.
L’appello lanciato più di un mese fa si intitolava #Sei1dinoi, a rappresentare la necessità di allungare il nostro sguardo alle singole criticità, alle persone in carne ed ossa che soffrono la crisi, le condizioni di povertà relativa e assoluta - nell’assenza delle istituzioni - che non hanno un tetto dove ripararsi, che lavorano in modo precario e con retribuzioni da fame. Un appello rivolto alle donne che subiscono la violenza degli uomini e che sono discriminate nella vita sociale e lavorativa. Un appello rivolto alle migliaia di donne, uomini e bambini che scappano dalle guerre e dalla fame, e che trovano nel nostro paese un governo razzista, sovranista, con venature decisamente fasciste.
Un appello che guarda alla nostra città, la capitale, e anche alla nostra regione. Un appello che parla agli ultimi e ai penultimi, provando a determinare le condizioni di un’alleanza di classe, se non un vero e proprio blocco sociale.
Vogliamo partire dai fondamentali, combinando il mutualismo sociale con la protesta e la proposta politica, con l’obiettivo di modificare le condizioni date, avviare un vero e proprio processo redistributivo, e contribuire a ricreare quel tessuto sociale, solidale e accogliente che, pur essendo presente in città, fatica a riconoscersi e a darsi obiettivi comuni. L’ambizione è questa, consapevoli che siamo una parte del paese e che il percorso che è cominciato con la manifestazione di sabato primo dicembre sarà lungo e faticoso. Tuttavia a noi sembra l’unico percorso possibile, per modificare il senso comune che si va affermando, fatto di mille individualismi (anche nella sofferenza sociale) e di rigurgiti razzisti e fascisti.
Questo percorso lo abbiamo voluto fare insieme alle tante soggettività, piccole e grandi, che popolano la nostra città e la animano. Quelle stesse che rischiano di essere sgomberate dalle occupazioni, o dai luoghi dove svolgono attività sociali riconosciute da anni. Quelle stesse che si vogliono opporre al decreto sicurezza appena licenziato o al ddl Pillon.
Qui arriviamo al Comune di Roma, alla sua giunta, che da due anni ha consegnato all’abbandono la città. Chiederemo un incontro proprio al sindaco di Roma e chiederemo conto del suo immobilismo. Le chiederemo perché Roma non ha un piano sociale (come previsto dalla legge) e ha tagliato di quasi cinquecento milioni il proprio bilancio sociale; perché non ha voluto utilizzare i duecento milioni stanziati dalla Regione Lazio per le politiche abitative e per dare risposte alle occupazioni; perché, a fronte di un regolamento licenziato da poco anche grazie al nostro intervento collettivo, non si decide ad assegnare i beni confiscati a quelle realtà sociali che si sono battute contro la mafia, per l’accoglienza dei migranti, per le emergenze abitative. E tante altre cose ancora.
In una fase in cui governa il populismo nella sua forma peggiore, noi riteniamo che la soluzione non sia un leader che parla col popolo, ma la costruzione di una comunità solidale, dove la politica torni a svolgere il ruolo che le consegna la Costituzione e così tutti gli altri soggetti sociali. Con il comune obiettivo di combattere le disuguaglianze e le ingiustizie sociali, il razzismo, e ogni forma di fascismo.