Del tutto fuori luogo i proclami sul recupero della situazione pre-crisi: in termini di ore lavorate manca un milione di lavoratori a tempo pieno rispetto al 2008.

è decisamente eccessivo il clamore mediatico che ha accompagnato la recente pubblicazione da parte dell’Istat dei dati sulla situazione occupazionale relativa a novembre 2017. Altrettanto fuori luogo e sprecati i commenti che abbiamo potuto leggere su organi di stampa vari, sia quelli decisamente favorevoli e che hanno inteso tali dati quale ulteriore conferma della bontà delle politiche attuate dai governi Renzi-Gentiloni in materia di lavoro, sia quelli nettamente di segno opposto.

Siamo infatti di fronte alla timida conferma di tendenze già delineatesi nei mesi scorsi: un certo consolidamento del numero degli occupati (23,18 milioni, +345mila rispetto ad un anno prima dovuti a +497mila dipendenti e meno 152mila autonomi; il saldo positivo dei dipendenti è dovuto a 450mila contratti a termine e solo 48mila a tempo indeterminato).

Restano valide tutte le considerazioni svolte a suo tempo sul fatto che il numero degli occupati nulla ci dice sul volume di lavoro attivato. I vari proclami sul pieno recupero rispetto alla situazione pre-crisi sono del tutto fuori luogo: in termini di ore lavorate, e quindi di reddito generato, manca l’equivalente di un milione di lavoratori a tempo pieno rispetto al 2008, per effetto della crescita esponenziale di lavori discontinui e part time forzosi. Anche il tasso di occupazione è ancora inferiore, seppure di poco, a quello del 2008: 58,4% di oggi contro il 58,8% di allora.

E’ confermato il fatto che gli incrementi occupazionali si manifestano soprattutto tra la popolazione più anziana, mentre tra i giovani i miglioramenti sono molto più deboli. E questo in barba al fatto di avere giustificato le devastazioni delle tutele per i cosiddetti “ipergarantiti” con la necessità di consentire ai giovani “outsider” l’ingresso stabile nel mondo del lavoro e quindi un superamento del dualismo del mercato del lavoro.

L’occasione è utile per qualche ragionamento su uno dei perduranti aspetti più devastanti del mondo del lavoro: quello della precarietà, per nulla ridimensionata, ma anzi ulteriormente alimentata dalle recenti cosiddette “riforme”. Vi è una apparente contraddizione: da diversi anni dei nuovi contratti attivati il grosso è a termine, mentre nello stock di occupati assistiamo sì ad un costante incremento della quota dei precari, ma tutto sommato lieve. Per dare un ordine di grandezza, gli avviamenti sono a termine nella percentuale oscillante tra il 70% e l’80%, mentre guardando allo stock, su ogni 100 occupati, quelli precari erano il 12% nel 2004, il 13,5% nel 2014 (prima del cosiddetto jobs act), il 14,1% nel 2015, il 15,5% nel 2017 (tutti i valori sono in corrispondenza del mese di luglio). Come si spiega la cosa?

Al di là delle spiegazioni tecniche (una è che per ogni singolo occupato si registrano parecchi avviamenti anche in un periodo molto breve, e la platea delle persone coinvolte è molto più ampia del numero di occupati), il fenomeno ci conferma una volta di più che le conclamate esigenze di flessibilità potevano trovare già ampio soddisfacimento con gli strumenti introdotti ancor prima del decreto legislativo 276/2003. Tutto il resto è pretestuoso e strumentale; è una questione di potere.

Il tema va risollevato con forza. E’ inaccettabile che milioni di persone vivano una condizione endemica di precarietà che non trova alcuna giustificazione “oggettiva” nei processi produttivi di beni e servizi. Va riproposta la necessità di una causale giustificativa per l’apposizione di un termine al contratto di lavoro, sia nel privato sia nel pubblico. A proposito della Pubblica amministrazione, è inevitabile chiedersi quale sia lo logica in base alla quale i provvedimenti di stabilizzazione dei precari sembrerebbero avere preso in considerazione solo alcune tipologie di “contratti flessibili”. Vi sono intere strutture, specie in ambito sanitario, tenute in piedi solo grazie ai lavoratori somministrati o magari operanti formalmente con borsa di studio, e che sono in tale condizione da anni se non decenni: quale penitenza dovrebbero praticare costoro per diventare meritevoli di essere presi in considerazione al pari dei contratti a termine o dei collaboratori?

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