A due anni dalla riforma Delrio non esiste una sola proposta di legge per lo svolgimento delle elezioni nelle Città metropolitane.
Se ne parla poco, eppure dal primo gennaio 2015, per effetto della legge 56/14, le Città metropolitane sono una realtà. Si tratta di dieci enti territoriali di area vasta coincidenti con i confini delle ex provincie, che hanno importanti compiti, risorse, poteri e competenze. Istituzioni nevralgiche e vitali per le sorti di ampi territori, che nelle intenzioni dei legislatori dovrebbero rappresentare il luogo di elaborazione e applicazione di politiche volte a uno sviluppo, capace di coniugare e valorizzare le potenzialità della metropoli con quelle dell’hinterland.
Per quanto attiene alla realtà della Città metropolitana di Roma Capitale, comprensiva di 121 comuni con oltre 4 milioni e 300mila abitanti complessivi, nonostante sia stato costituito il Consiglio metropolitano (composto da 24 membri, eletti dai sindaci e dai consiglieri comunali della ex Provincia in data 5 ottobre 2014), da oltre un anno e mezzo dal suo insediamento formale si registra una istituzione fantasma. Non pervenuta.
Ora però, dopo le recenti elezioni amministrative che hanno interessato il Comune di Roma, nel combinato disposto fra burocrazia e percorsi legislativi incompiuti, si delinea una parabola segnata da aspetti davvero tragicomici se non caricaturali. La legge Delrio sul riordino istituzionale (n. 56/14) al punto 21 afferma: “In caso di rinnovo del Consiglio del comune capoluogo, si procede a nuove elezioni del Consiglio metropolitano entro sessanta giorni dalla proclamazione del sindaco del comune capoluogo”. Al punto successivo recita: “Lo statuto della Città metropolitana può prevedere l’elezione diretta del sindaco e del Consiglio metropolitano, con il sistema elettorale che sarà determinato con legge statale”.
Lo Statuto della Città metropolitana di Roma Capitale, approvato con deliberazione della Conferenza metropolitana il 22 dicembre 2014, all’articolo 16 stabilisce che il sindaco e i consiglieri vengono “eletti a suffragio universale e diretto, secondo il sistema elettorale che sarà determinato con la legge dello Stato”. Quindi dopo 60 giorni dal 22 giugno scorso (data di proclamazione del nuovo sindaco di Roma) dovevano essere indette elezioni, aperte alla partecipazione di tutti i cittadini dei 121 comuni della ex provincia, per eleggere il sindaco e il consiglio della Città metropolitana di Roma Capitale.
Il problema era, ed è, l’assenza della “legge dello Stato” che definisce il sistema elettorale con il quale procedere al voto per il sindaco e il consiglio delle Città metropolitane che prevedono nello Statuto il suffragio universale. E’ un tema che interessa anche le Città metropolitane di Milano e Napoli, segnate da recenti elezioni amministrative e che, analogamente a Roma, prevedono nello Statuto il voto diretto a suffragio universale.
Tutti i sindaci eletti nelle ultime elezioni amministrative di giugno 2016 nei comuni capoluogo delle città metropolitane (Roma, Milano, Napoli, Torino e Bologna), hanno indetto (in qualità di sindaci anche dell’area vasta) elezioni per il rinnovo dei consigli per i primi di ottobre, andando abbondantemente oltre i 60 giorni previsti dalla legge. Ma questo può essere considerato un peccato veniale rispetto a quello commesso dai soli sindaci di Roma, Napoli e Milano, che hanno deciso di bypassare legge e statuti, assumendo impropriamente il ruolo di sindaco delle Città metropolitane e promuovendo, per la formazione del consiglio, elezioni non a suffragio universale, bensì aperte alla eleggibilità e alla partecipazione dei soli sindaci e consiglieri dei comuni compresi nelle aree.
Ovviamente la responsabilità maggiore non può essere imputata a Raggi, De Magistris e Sala, che sono stati costretti a fare l’unica cosa possibile in assenza di una legge dello Stato sulle modalità di elezione diretta del sindaco e del consiglio delle città metropolitane. E’ invece evidente una colpa grave del Parlamento e, soprattutto, del governo Renzi. Un esecutivo che, ad onta della propaganda sulla “velocità dei cambiamenti”, dopo due anni dalla riforma Delrio non ha ancora messo in campo neppure una proposta di legge per lo svolgimento delle elezioni a completamento del “riordino istituzionale”. Originando così una grottesca vicenda portatrice di un’evidente menomazione della democrazia e della partecipazione, impedendo a milioni di cittadini di poter eleggere direttamente i propri rappresentanti in un’importante e nevralgica istituzione territoriale.