Il Coordinamento nazionale di Lavoro Società per una Cgil unita e plurale porta un contributo collettivo di riflessione sul documento per l’Assemblea Organizzativa nazionale; un contributo propositivo per ampliare, rafforzare, qualificare il confronto aperto e plurale. L’obiettivo è di affrontare concretamente i problemi vecchi e nuovi, al fine di trovare insieme soluzioni condivise, assumendo decisioni coerenti e conseguenti.
Cambiare le foglie senza tagliare le radici
L’Assemblea organizzativa va affrontata con spirito costruttivo e non burocratico, per ripensarci come organizzazione, per dare risposte alle nostre iscritte e ai nostri iscritti, ai problemi drammatici e globali che attraversano il Paese e la società, amplificati dalla fase pandemica, con senso generale di appartenenza alla Cgil e di rinnovata consapevolezza e solidarietà.
L’assemblea dev’essere un percorso di aperto e ricco confronto plurale, un appuntamento da non trasformare in una continuità o un anticipo congressuale, e neppure in luogo per nuovi equilibri di potere tra strutture o gruppi dirigenti.
Va superata la contraddizione tra la volontà dichiarata del massimo coinvolgimento delle delegate e dei delegati e di un percorso partecipato e aperto, e una discussione che, nel corso di alcuni mesi, ha coinvolto quasi esclusivamente i segretari generali e alcune strutture, marginalizzando di fatto gli organismi, Comitato Direttivo e Assemblea Generale, che vanno invece rivitalizzati per il loro ruolo e la loro funzione di espressioni della democrazia delegata e della rappresentanza plurale, programmatica e delle idee, statutariamente definite. In particolare va valorizzato il ruolo del Comitato Direttivo, non assimilabile o contrapponibile all’Assemblea Generale. Da tempo è in atto una verticalizzazione della nostra organizzazione e una sovraesposizione – interna ed esterna – del ruolo dei segretari generali a scapito della collegialità e dei percorsi democratici.
La nostra organizzazione è proprietà collettiva delle iscritte e degli iscritti, non proprietà individuale di dirigenti eletti pro tempore a ricoprire cariche sindacali.
Giustamente il percorso approvato coinvolge tutte le Assemblee Generali; bisogna garantire, a partire dai livelli territoriali, l’effettiva partecipazione dei loro componenti, in particolare delle delegate e dei delegati dei luoghi di lavoro e degli attivisti delle leghe Spi, non solo in termini di presenza, ma di reale coinvolgimento nel dibattito, garantendo il tempestivo invio dei documenti, convocando possibilmente riunioni specifiche di discussione preliminari alle Assemblee stesse.
La discussione su un documento a schede rafforza il carattere aperto e non precostituito del dibattito, ma rischia di frammentarlo e di rendere più complicata la sintesi finale e l’individuazione delle priorità della Confederazione.
Sono i contenuti, l’analisi sociale e la visione politica, il progetto di società contenuti nella Premessa a determinare le ragioni essenziali dell’assemblea organizzativa, nella quale le schede sono e devono rimanere uno strumento e un metodo di lavoro.
Sarà determinante la capacità dei centri regolatori di sintetizzare il dibattito e le proposte venute dalle Assemblee Generali, raccogliendo tutta la ricchezza e l’articolazione delle valutazioni e delle proposte emerse dalle assemblee territoriali e di categoria ed evitando una contrapposizione tra categorie e Confederazione, fornendo una griglia di temi risultati prioritari, valorizzando al contempo il pluralismo delle posizioni.
Il sindacato nella crisi: neoliberismo, trasformazioni sociali e modelli organizzativi
La discussione sul sindacato generale deve tornare al centro della sfera pubblica, sociale e politica.
La qualità e le modalità delle forme di rappresentanza del lavoro informano e determinano l’intero quadro politico-istituzionale, mentre le iniziative generali delle organizzazioni sindacali possono determinare la ri-politicizzazione di fratture sociali e di classe decisive per la stessa rappresentanza politica del Lavoro.
A partire dagli anni Ottanta il sindacato è stato l’obiettivo primario della controffensiva capitalista, subendo una deriva difensiva che l’ha indotto a scegliere i terreni più consoni al neoliberismo. La lunga stagione neoliberista - nella quale i partiti della sinistra si sono distanziati dalla loro base sociale che ne definiva natura e identità soggettiva, e che ha visto lo Stato prima ritirarsi, con le grandi privatizzazioni, dal ruolo di regolatore attivo della politica economica, e successivamente cedere il welfare a soggetti privati - interroga profondamente l’azione sindacale. Gli scambi di prospettiva, gli accordi, la “forte tentazione di porsi sulla difensiva aggrappandosi a ciò che si ha” come possibile materia di scambio; il circolo vizioso di ribassi è irrefutabile ed ha condizionato anche parte della cultura organizzativa.
Il decennio successivo ha segnato la fase di maggiore arretramento rispetto agli interessi e alla forza del mondo del lavoro: il governo Ciampi, a fronte delle draconiane scelte economiche e sociali per entrare nell’Europa dell’euro, ha proposto, accettato dai più, un modello “neoconcertativo” e corporativo nel quale le forze sociali hanno assunto un ruolo direttamente politico, supplendo alle forze politiche. Un ruolo centrale per scelte pessime, dalla moderazione salariale alla controriforma Dini sulle pensioni, alla svendita del patrimonio delle partecipazioni statali e delle reti, passando per la precarizzazione del lavoro del pacchetto Treu e per la guerra ‘contingente necessità. Certo, momenti e fasi diverse, ma tutte impregnate di una subalternità ai dettami neoliberisti che ha ridotto la forza di rappresentatività derivata dal mondo del lavoro in cambio di un surrettizio riconoscimento istituzionale. L’avvio del Ventunesimo Secolo è segnato da una nuova supplenza della politica, in questo caso della sinistra, a fronte del berlusconismo. Anni caratterizzati dallo scontro della Cgil con le evoluzioni del partito più grande nato dallo scioglimento del Pci. Per un verso la Cgil di Cofferati riempie le piazze contro il tentativo di modifica dell’articolo 18 da parte del governo Berlusconi, per altro verso, nello scontro interno di partito, sembra potersi concretizzare la nascita di un Partito del Lavoro, promosso e sostenuto dalla Cgil, capitalizzando il ruolo politico assunto in quella fase attraverso la mobilitazione generale.
Anche in questo caso, seppure quel progetto sia fallito, si trattava comunque del un tentativo di assumere un peso nella società rimettendo al centro il lavoro e la condizione lavorativa. Ma rimanevano sullo sfondo la materialità delle trasformazioni del mondo del lavoro, il decentramento produttivo, il toyotismo, le catene degli appalti, l’esser poveri anche lavorando, la perdita di capacità di determinare le riorganizzazioni produttive nei luoghi di lavoro e sostanzialmente anche di intervenire sulle politiche macroeconomiche, la realtà, ieri, e sempre di più oggi, di una disoccupazione strutturale e di massa che continuava ad indebolire oggettivamente la forza delle organizzazioni sindacali, a fronte di un moltiplicarsi di tipologie contrattuali sempre più precarie e precarizzanti.
E ancora, la debolezza organizzativa con un legame fragile con i luoghi di lavoro, la continua riduzione della rappresentanza del mondo del lavoro trasformato ci hanno posto enormi problemi sul futuro e sulla funzione dell’organizzazione. Con la crescita del sistema dei servizi per la tutela individuale, si è pensata e teorizzata una scorciatoia di corto respiro; non si è inoltre incentivata la scelta per forme collettive di condivisione e di organizzazione. La nostra rappresentanza e la nostra rappresentatività del mondo del lavoro vanno dunque ridisegnate, rafforzate e riqualificate.
Gli anni Duemila, tuttavia, sono anni di ripensamento della linea politico-sindacale, culminato nel 2013 con la proposta del nuovo Piano del lavoro, frutto anche dell’increspatura che la crisi del 2008-2009 apriva nella stagione dell’austerità e del ritrarsi dello Stato.
Ma è nello scontro con il governo presieduto dal segretario del Pd Matteo Renzi che matura una pratica ed una proposta che potevano – e potrebbero – tenere assieme protagonismo sul piano politico e ridefinizione dei perimetri di rappresentanza sociale dell’Organizzazione sindacale: la raccolta di firme per promuovere i referendum di accompagnamento della Carta dei diritti universali del lavoro e la trasformazione della stessa in proposta di legge di iniziativa popolare. La Cgil, si faceva sì soggetto politico di rappresentanza sociale promuovendo, in alternativa al Jobs Act di Renzi, la raccolta di milioni di firme e avanzando una proposta per un rinnovato radicamento nei luoghi di lavoro, il nuovo Statuto dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori.
Così come nel nuovo Piano del lavoro c’era un esplicito riferimento alla stagione della Cgil guidata da Di Vittorio, ci si rifaceva allo Statuto dei lavoratori del 1970, quando la Costituzione entrava nei luoghi di lavoro.
La proposta parlava anche, o soprattutto, al modello organizzativo della Cgil, che vedeva la metà degli iscritti pensionati, categorie degli attivi fortemente verticalizzate sui soggetti relativamente forti con una insufficiente sindacalizzazione del terziario “povero”, del mondo del precariato e della disoccupazione e/o lavoro informale. La Carta, rifacendosi al dettato costituzionale, per la prima volta afferma l’esistenza di diritti indipendentemente dalla tipologia contrattuale, arrivando ad includere anche il vero lavoro autonomo se dipendente economicamente. Era un giusto tentativo di rappresentare ed organizzare i non rappresentati e coloro ai margini del lavoro, di ricomprendere tutto il lavoro che il Capitale frantuma e ridisloca territorialmente, attraverso il primato e la centralità delle Camere del lavoro territoriali.
Un salto di approccio per la riunificazione di tutto il mondo del lavoro che vede anche il “vero” lavoro autonomo ma economicamente subordinato rientrare nella base sociale da rappresentare. Una giusta attenzione nel tentativo di rappresentare ed organizzare sia i non rappresentati che quelli ai margini del lavoro.
Altro punto significativo la riformulazione estensiva dell’articolo 18 della Legge 300, da applicare non più solo alle aziende con più di 15 dipendenti ma a partire dalla soglia di 5 addetti, ampliando in maniera esponenziale le realtà coinvolte, il tutto unito ad una riformulazione del perimetro aziendale che contrasti gli smembramenti funzionali ad abbassare la soglia.
La Carta, in questa fase di ricostruzione del futuro, deve rientrare con forza nell’iniziativa politica e sociale della Cgil e nel confronto-negoziazione con il governo, così come la stessa proposta di cultura economica neokeynesiana e programmatoria presente nel Piano del lavoro.
Si fa riferimento e, giustamente, si agita la Legge sulla rappresentanza e rappresentatività, che è l’altro pilastro della Carta, ma non si va oltre la constatazione delle difficoltà a partire dalla posizione della Cisl che ha un’altra impostazione rispetto alla necessità di una legge. Scomparsa dall’orizzonte sembra invece la questione dell’articolo 18, nonostante la promozione dei referendum a supporto e le vittorie in ogni sede, europea e davanti a giudici di ogni ordine e grado, in merito alla incostituzionalità del diverso trattamento rispetto alla reintegra di lavoratori in caso di licenziamento illegittimo.
La legge sulla rappresentanza è importante, ma tutela soprattutto le Organizzazioni, la reintroduzione dell’articolo 18 esteso è fondamentale perché riequilibra – seppur in una fase di disoccupazione di massa – il potere reale nei luoghi di lavoro e il rapporto tra capitale e lavoro. Nella storia delle dinamiche sociali e delle codificazioni normative, gli avanzamenti nella società hanno sempre preceduto la formalizzazione giuridica. La rappresentanza del lavoro disseminato e ricomposto nel territorio è centrale nel ridare ruolo alle Camere del Lavoro territoriali.
La crisi pandemica dà urgenza alla ricomposizione e riunificazione del mondo del lavoro, alla ridefinizione dei perimetri contrattuali, perché rimette al centro della riflessione la centralità del lavoro vivo nella creazione del valore, sgombrando il campo da quanti negli anni Ottanta e Novanta parlavano della “scomparsa e della fine del lavoro”.
Il coronavirus ha demolito d’un colpo la recente de-costruzione teorica sul lavoro.
Il capitalismo non ha alcun interesse a produrre beni durevoli per soddisfare i bisogni umani, avendo maggiormente a cuore l’amplificazione del valore di scambio delle merci attraverso lo sfruttamento della forza lavoro e il rapido recupero del capitale. All’interno di questo obiettivo va inquadrato il processo in atto della creazione di una miriade di lavori precari e informali, svolti da lavoratori esternalizzati, intermittenti, ‘walmartizzati’ e ‘uberizzati’.
Occorre per questo rivedere il nostro modello organizzativo, ripensare a un sindacalismo orizzontale come anticorpo contro lo scivolamento verso forme di corporativismo delle categorie e di una strisciante burocratizzazione da apparato.
Un sindacalismo inclusivo che sappia scegliere i problemi da risolvere non dall’agenda del capitale ma da quella imposta dai bisogni di classe delle sue iscritte e dei suoi iscritti.
Un sindacalismo, infine, non più difensivo ma decisamente più combattivo, che sappia ricostruire rapporti di forza più favorevoli, che contrasti con più decisione il progressivo smantellamento del welfare state, il ridimensionamento del tessuto produttivo, la disoccupazione giovanile di massa, le insopportabili divisioni tra il nord e il sud del paese, la discriminazione di genere a partire dai luoghi di lavoro.
Un sindacato confederale forte di una autonomia programmatica e teorica, il cui orizzonte politico può tornare a essere il superamento della centralità del mercato e del profitto, cioè del sistema capitalistico di sfruttamento delle persone, degli uomini e delle donne, del pianeta, e che non persegua una rassegnata cogestione improntata a limitarne i danni.
Ripartire da noi guardando fuori di noi
Nel vuoto e nella mancanza di un’adeguata rappresentanza politica del lavoro occorre affidarci a noi, alla nostra autonomia. Abbiamo bisogno di provare a realizzare insieme quell’autoriforma tanto difficile quanto necessaria per la Cgil. Per ripensarci e superare limiti e derive, per mettere in grado l’organizzazione di rinnovarsi e di affrontare le sfide imposte dalla crisi e dai cambiamenti avvenuti nel mercato e nel mondo del lavoro. Per trasformare in azione collettiva le tante solitudini dei pensionati, dei lavoratori, dei giovani, delle donne nella loro condizione sociale, così duramente evidenziate e accresciute dalla pandemia.
Dobbiamo costruire un modello organizzativo che non abbia come scopo principale il risparmio e il “pareggio di bilancio” – pur nella consapevolezza delle difficoltà economiche e finanziarie – ma prioritariamente le nostre rinnovate necessità di sindacato generale.
O saremo noi in grado di cambiarci, o rischiamo un cambiamento imposto dall’emergenza economica e da governi che tendono a disconoscere il ruolo dei “corpi intermedi” e attaccano su più fronti le condizioni di lavoro e il ruolo del sindacato, con effetti che mettono a rischio anche la tenuta economica e organizzativa del sindacato e della Cgil.
La preoccupante riduzione del tesseramento e della quota tessera media, il fatto che la maggior parte delle tessere provengano dall’attività dei servizi segnalano le difficoltà dell’insediamento sia nei settori tradizionali che tra le “nuove” figure lavorative, precarie ed economicamente dipendenti, anche se formalmente “autonome”.
I servizi svolgono una funzione di tutela individuale importante, sono e devono rimanere parte essenziale della Cgil e devono entrare nel confronto sulla riorganizzazione mantenendo una proficua simbiosi con le strutture della contrattazione collettiva e del radicamento diretto nei luoghi di lavoro e nel territorio. Sono anche fonte di conoscenza di dati, di individuazione dei bisogni del lavoratore, del cittadino nella sua dimensione sociale, che vanno inseriti nel nostro circuito conoscitivo, utilizzati e studiati al fine di aggiornare le richieste e le proposte da inserire nelle piattaforme a tutti i livelli.
Le nostre sedi, le nostre Camere del lavoro devono divenire sempre più luogo dell’accoglienza, della solidarietà, dell’attenzione verso chi - lavoratori, pensionati, migranti, disoccupati, cittadini, donne e uomini - si rivolge a noi per avere non solo un servizio ma un riconoscimento della sua persona, un sostegno e delle risposte al suo bisogno individuale. Un luogo dove deve trovare una organizzazione con una cultura collettiva contro la solitudine dell’individualismo, e chi gli propone il valore sociale e politico di iscriversi, di sostenere e di partecipare alla vita della nostra organizzazione con la tessera sindacale. La confederalità si rafforza anche così.
Viviamo anche noi una crisi generale di rappresentanza, attraversati da burocratizzazione, verticalizzazione, accentramento e uso distorto del potere, da una balcanizzazione strisciante e da una perdita di appartenenza che ha offuscato nel tempo, insieme alla militanza, l’identità stessa e l’azione confederale. Non dobbiamo reinventarci ma ripensarci, razionalizzare e spostare risorse, ridurre sprechi e sovrastrutture, eliminare sovrapposizioni di funzioni, in base all’utilità e al fare concretamente sindacato.
L’autoriforma è possibile ma, come dimostra la Conferenza del 2015, rimasta in buona parte incompiuta, non si realizza con nuove regole statutarie o con delibere, che pure sono necessarie, ma attraverso la convinzione, la coerenza e la responsabilità del gruppo dirigente diffuso nel praticarla e nel realizzarla. Fare il sindacalista è una scelta; i valori, l’etica, la correttezza, la lealtà, la solidarietà, insieme all’assunzione di responsabilità, devono vivere nella discussione. La distanza tra quanto decidiamo e quello che realizziamo è il segno più evidente e preoccupante della burocratizzazione ramificata, dell’“ognuno fa quello che vuole” e della perdita di confederalità. Occorre aprire un serio confronto, senza rimozioni, sulle ragioni della mancata o ridotta realizzazione delle decisioni che si assumono negli organismi dirigenti.
L’Assemblea organizzativa deve delineare una rinnovata identità di sindacato confederale e di confederalità, indicare un modello, una struttura organizzativa che risponda a un’idea di contrattazione capace di rappresentare e riunificare la complessità e frammentazione del mondo del lavoro di oggi su un progetto generale, andando oltre i ritardi e le inefficienze.
La contrattazione inclusiva, rinnovata ed esercitata a tutti i livelli dev’essere il cuore dell’Assemblea.
Il reinsediamento e il radicamento passano principalmente dai luoghi di lavoro e dal territorio e dall’azione confederale e contrattuale delle categorie, dalla ri-sindacalizzazione, dalla formazione continua del gruppo dirigente diffuso, a partire dalle delegate e dai delegati.
La comunicazione è centrale. Occorre mettere a disposizione di tutta l’organizzazione l’informazione e la circolarità dei contenuti del confronto. Le buone pratiche vanno immesse nel circuito organizzativo superando i compartimenti stagni e la corporativizzazione e il particolarismo latenti. Per questo occorre immettere un alto tasso di confederalità, coordinare le scelte e le rivendicazioni a tutti i livelli, tenere insieme la lotta generale con quella particolare, di settore, sociale e aziendale.
La bilateralità, da ricondurre nell’alveo tradizionale di strumento di emanazione contrattuale, è di supporto all’azione contrattuale nei settori più deboli, per sostenere il reddito e il welfare dei lavoratori, superando ogni forma di contrapposizione e indebolimento dei principi e della pratica della sanità e dei servizi pubblici come diritti universali di tutti i cittadini e i residenti, evitando le pratiche diffuse di welfare aziendale e contrattuale che accrescono le diseguaglianze tra lavoratori e con i pensionati.
La regia, il coordinamento confederale sulla contrattazione nazionale e di filiera, territoriale, di sito o sociale vanno rafforzati, anche con nuovi strumenti organizzativi, per la conquista dei CCNL, per delineare contenuti rivendicativi, per costruire rapporti di forza e di sostegno alle mobilitazioni coerenti con le scelte assunte.
Nessuna subordinazione di qualche struttura, ma un coordinamento di confronto, di conoscenza e di contaminazione con le buone pratiche contrattuali che realizziamo, di indirizzo e di indicazione sulle vertenzialità e le piattaforme da mettere in campo. L’autonomia decisionale, il ruolo delle categorie non sono in discussione, così come la titolarità che non va rivendicata ma esercitata e valorizzata. Abbiamo bisogno di sperimentare una nuova stagione contrattuale a tutti i livelli con l’immissione di un alto tasso di rinnovata confederalità, se vogliamo affrontare sul piano generale lo scontro imposto dalla crisi, dal padronato e dal governo, di maggiore collegialità, nella consapevolezza dei limiti di una contrattazione difficoltosa, corporativa e poco inclusiva, rinchiusa nelle roccaforti e sempre meno in grado di rappresentare l’intero mondo del lavoro, e dare risposte ai bisogni del lavoratore e del cittadino nella sua condizione sociale.
Occorre certamente spostare risorse – umane ed economiche – e decisioni verso il basso, valorizzare le Camere del lavoro con le loro articolazioni, una maggiore orizzontalità che riparta però dai luoghi di lavoro e dal territorio per ricostruire proselitismo, partecipazione, militanza e una diffusa rappresentatività e rappresentanza. La confederalità deve ritrovare centralità e valore attraverso la funzione essenziale delle categorie e dello Spi sul territorio e nei luoghi di lavoro, esercitando quella contrattazione che è e deve rimanere il cuore pulsante dell’organizzazione.
Il territorio è un mondo da scoprire, un luogo di costruzione dello sviluppo partecipativo, di estensione della contrattazione sociale che incrocia quella aziendale e categoriale.
La Cgil è un’organizzazione militante di iscritte e di iscritti, che ha nella sua concezione di democrazia, nel pluralismo e nella pluralità la ricchezza e gli anticorpi per respingere gli assalti corporativi e populisti e l’idea perversa e pericolosa – che si riaffaccia in più ambiti politici e sociali – dell’uomo solo al comando e del “partito nazione”.
Noi non siamo per la delegittimazione del principio della rappresentanza e della democrazia partecipata e delegata, e siamo per respingere sempre la democrazia plebiscitaria e la cultura autoritaria.
In Cgil la passione, le pluralità, la ricchezza delle opinioni, le generazioni si riconoscono e si incontrano.
Lo spostamento di risorse umane ed economiche verso il basso, per non restare soltanto una scelta resa necessaria da considerazioni di tipo operativo, deve affiancarsi ad un ritorno alla valorizzazione delle strutture di base territoriali come sedi decisionali e di scelta dei gruppi dirigenti di quel livello, ricostruendo un’etica della democrazia e della responsabilità nella filiera di elezione dei gruppi dirigenti e di valutazione e promozione dei quadri.
Per quanto riguarda le Assemblee generali, è necessaria una riflessione sulle difficoltà di partecipazione e di coinvolgimento degli attivisti in produzione. Le nostre delegate e i nostri delegati sono sottoposti alle conseguenze della crisi, chiusi nella realtà lavorativa, condizionati dalla mancanza di permessi sindacali e ricattati sulle ricadute del Jobs act. Tutto questo rende difficoltosa la conoscenza e la partecipazione alla vita dell’organizzazione, e può privare i delegati dell’autonomia necessaria, facendo correre loro il rischio di essere strumentalizzati ed utilizzati nello scontro interno. Occorre costruire le condizioni, a partire dall’applicazione delle nostre regole statutarie sul ruolo degli iscritti, delle segreterie, dei segretari generali e dei direttivi, sulla costruzione e le conclusioni delle piattaforme per garantire percorsi di democrazia compiuta, di coinvolgimento non formale ed estemporaneo, dando e riconoscendo a tutti gli strumenti per esercitare il ruolo loro assegnato.
Occorre rivitalizzare il ruolo dei comitati direttivi, strumenti decisionali ed espressioni della democrazia delegata, della rappresentanza plurale e degli equilibri politici statutariamente definiti. Essi devono essere sempre più organismi decisionali, partecipati e non limitati alla semplice ratifica di decisioni già prese altrove.
Il pluralismo programmatico, la ricerca dell’unità e del consenso, basati sul confronto delle idee e sulla valorizzazione delle esperienze, devono restare valori irrinunciabili, contro qualsiasi tentativo di imporre nella confederazione una sorta di “dittatura” del segretario generale e delle sue opzioni politiche, così come il pluralismo delle posizioni deve continuare ad essere una ricchezza da valorizzare per contrastare la formazione dei gruppi dirigenti sulla base di criteri di fedeltà piuttosto che di lealtà all’organizzazione, competenza e rappresentanza, rischiando di snaturarne il ruolo e di trasformarli nello “staff” del segretario generale.
Osservazioni sulle schede
Senza sminuire alcuna delle schede proposte, non tutti i temi hanno la stessa portata e impatto in termini di profondità della riflessione necessaria e delle scelte politico-organizzative cui siamo chiamati per affrontarli.
Pensiamo - e avevamo proposto alla segreteria nazionale - che un accorpamento tematico di alcune schede e una loro diversa scansione avrebbero potuto aiutare a orientare le modalità della discussione e la successiva individuazione delle priorità:
1) Tesseramento: scheda tesseramento;
2) Democrazia – Contrattazione – Strutture – Risorse: Schede, nell’ordine: Democrazia e Partecipazione; Centralità delle Camere del lavoro e Sindacato di strada …; Rappresentanza, Contratti Nazionali, Contrattazione Inclusiva; Contrattazione Sociale e Territoriale…; Strutture Organizzative; Risorse, Trasparenza, Confederalità;
3) Strumenti attuativi: Schede, nell’ordine: Rafforzamento, Tutela e Diritti; Digitalizzazione e Alfabetizzazione digitale; Formazione; Comunicazione.
Una simile scansione, a nostro avviso, oltre a favorire una maggiore integrazione tra i contenuti delle schede, avrebbe prefigurato, in linea di massima, i possibili diversi percorsi attuativi (delibere del Comitato Direttivo o decisioni congressuali), in particolare per il terzo blocco.
Nella premessa del documento va evidenziato che vogliamo rafforzare l’autonomia e l’identità valoriale e programmatica della Cgil, confermando le scelte strategiche della confederalità, della partecipazione consapevole e attiva delle lavoratrici e dei lavoratori, della lotta per l’universalità dei diritti e la centralità del pubblico nel welfare e nell’economia.
Così come va sottolineato che la lunga stagione neoliberista interroga profondamente anche l’azione sindacale perché ci ha indotto in un circolo vizioso di scambi al ribasso ed ha probabilmente condizionato parte della cultura organizzativa sindacale a ritenere ineluttabili alcuni compromessi. Perciò occorre ripensare a un sindacalismo confederale orizzontale, nemico del corporativismo e di una burocratizzazione da apparato. Un sindacalismo inclusivo; un sindacalismo che sappia scegliere i problemi da risolvere dall’agenda imposta dai bisogni della riconquistata e ritrovata classe sociale dei suoi iscritti. Un sindacalismo non più difensivo, ma radicale e combattivo, il cui orizzonte politico può tornare a essere la messa in discussione e il superamento del sistema di accumulazione e sfruttamento capitalistico, e non più una rassegnata gestione volta a limitarne i danni.
Ancora nella Premessa, laddove si parla del fenomeno migratorio, va indicata la promozione della valorizzazione della partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori migranti a tutti i livelli dell’organizzazione, negli organismi e nei gruppi dirigenti, come obiettivo primario delle politiche organizzative della Cgil.
Nella parte dedicata all’Europa, non possiamo omettere un giudizio e un obiettivo sulla criminale “politica migratoria” dell’Unione. Va rilanciata con forza una battaglia per una radicale modifica delle politiche europee su migrazione e asilo, ponendo fine ad ogni accordo di esternalizzazione delle frontiere, stabilendo politiche comuni di ingresso legale e protezione umanitaria, trasformando la missione Frontex in una missione di ricerca e soccorso, modificando il trattato di Dublino.
Ancora nella Premessa, è del tutto ambigua la breve frase relativa alla “democrazia economica” di cui dovremmo essere promotori. Un conto sono maggiori spazi di contrattazione, norme legislative a supporto del diritto di informazione a rafforzamento della prima parte dei contratti, altra cosa, per noi lesiva della natura autonoma e di classe del sindacato, l’idea della presenza nei “consigli di sorveglianza” alla tedesca, che, ancorché impedita dalla volontà padronale e delle varie maggioranze politiche, segnerebbe la subalternità e la corporativizzazione della classe operaia delle grandi aziende, come dimostrano appunto i “modelli” sindacali del nord Europa, non a caso indisponibili a vere politiche di unità e solidarietà internazionale, chiusi nel proprio aziendalismo e nella preminenza degli interessi nazionali.
Oltretutto questo non ci sembra tema da Assemblea organizzativa, ma semmai da Congresso. Nel merito, siamo contrari a proposte di introduzione di un modello di sindacato consociativo non percorribile nella realtà italiana, prendendo impropriamente a riferimento l’esperienza tedesca o simili: modificherebbe completamente la natura del nostro sindacato confederale, amplificherebbe la distanza tra lavoratori di medio-grande impresa e piccola-micro impresa, accentuando i caratteri aziendalisti e corporativi. Il tema va sviluppato con l’ampliamento dei diritti della prima parte dei contratti e con una battaglia politica per l’applicazione degli articoli 41, 42, 43 della Costituzione che pongano precisi vincoli e controlli pubblici alle scelte unilaterali delle aziende sia nazionali che multinazionali, come indica il dibattito, anche tra giuslavoristi, che si sta sviluppando sulla vertenza della Gkn e di altre aziende, dove anche si è evidenziata la debolezza dell’avviso comune di luglio sullo sblocco dei licenziamenti.
Per quanto riguarda la SCHEDA TESSERAMENTO, sottolineiamo che il tesseramento è un tema generale di ordine politico e valoriale, determina l’identità dell’organizzazione, la sua natura di sindacato della contrattazione e della partecipazione e la sua stessa tenuta organizzativa ed economica. Per questo va assunto in primo luogo come obiettivo e responsabilità del gruppo dirigente, delle strutture esecutive, degli organismi decisionali.
La Cgil non può affidare il tesseramento a una struttura elettiva come la Rsu che è e rimane cosa diversa da una struttura di organizzazione come la Rsa. Semmai sono i delegati e le delegate eletti, i nostri Rlst, figura sottovalutata, della Cgil che devono divenire, se formati, coinvolti e valorizzati, i soggetti più adeguati per il loro rapporto con le persone per il proselitismo e tesseramento nei luoghi di lavoro.
Non ci convince la proposta della figura del “tesseratore” e dell’operatore del tesseramento: il compito del tesseramento deve essere connaturato a tutti i dirigenti della Cgil, di ogni livello, e quindi vanno diffusi a tutte/tutti gli strumenti tecnici e formativi per l’attività quotidiana di tesseramento. Il tesseramento da anni, oltre a subire un arretramento costante, ha cambiato la sua natura, il suo approccio, con lo spostamento dai luoghi di lavoro ai servizi individuali come struttura e luogo privilegiato.
Sul tesseramento permangono situazioni ancora troppo differenziate tra le categorie e le realtà territoriali e regionali della Cgil. Occorre riportare in sicurezza e in chiarezza il tesseramento che tuttora avviene in una situazione tanto differenziata quanto non controllata.
Qualsiasi intervento sulla canalizzazione e lo spostamento di risorse verso il territorio e i luoghi di lavoro deve avvenire nella determinazione e nella uniformità del tesseramento. Occorre partire dalle esperienze positive, dalla realtà per determinare una linea, un modello nazionale cogente, articolato, differenziato ma non nell’anarchia che viviamo nel presente.
Categorie, settori, territori, figure diverse, lavoratori, precari hanno un tesseramento differenziato e questo non può continuare, soprattutto perché il tesseramento è uno dei riferimenti per pesare la nostra rappresentatività e rappresentanza.
Inoltre, là dove si interviene con le nuove tecnologie e un tesseramento non tradizionale, quello con la trattenuta in busta paga, occorre ricostruire regole certe e non derogabili, come sul tesseramento “brevi manu”, pratica da superare per la mancanza di controllo, per la confusione sulla quantità economica e la sua ripartizione, e per il mancato caricamento di una buona parte di queste tessere nel sistema Argo che non permette la precisa conoscenza della realtà e rischia di falsare la stessa anagrafe degli iscritti.
Ci sembra che debba essere maggiormente valorizzato il dato del tesseramento e dell’adesione di lavoratrici e lavoratori migranti che, negli anni di difficoltà e calo del tesseramento, hanno costituito un elemento di tenuta e di crescita – da implementare ulteriormente – della nostra organizzazione.
Nella SCHEDA sulle STRUTTURE ORGANIZZATIVE la tabella numerica sui processi di integrazione e accorpamento non dice nulla – in assenza di valutazioni analitiche, per quanto sintetiche – sui principali problemi e/o risultati emersi finora da questi processi.
Occorre una disamina delle ragioni reali di questi processi e dei risultati ottenuti dal punto di vista della capacità di fare sindacato e dell’efficacia qualitativa della nostra azione confederale e categoriale, altrimenti procederemo con altri accorpamenti, in maniera disordinata e disomogenea, senza ricavare alcuna “lezione” dai processi già attuati.
Le integrazioni e gli accorpamenti avvenuti non per scelta politica e qualitativa di insediamento sindacale, ma per obblighi derivanti dalla tenuta economica, non sono la stessa cosa e non producono gli stessi risultati.
Per quanto riguarda la SCHEDA FORMAZIONE vogliamo sottolineare che la formazione non può essere un ambito a sé, specialistico e gestito da un “corpo docente” non integrato con la vita quotidiana dell’organizzazione. La prima formazione rimane quella valoriale e identitaria rivolta alle donne e agli uomini della CGIL. Fare il sindacalista, il funzionario, il delegato non è una scelta di lavoro come altre, ma di impegno e di responsabilità. Che tu sia delegata o delegato, operatore sindacale agli sportelli, funzionario o dirigente, dipendente o in legge 300, appartenente all’apparato politico o tecnico, occorre consapevolezza della scelta di militare in una organizzazione generale, con le sue radici e la sua storia, di rappresentanza di milioni di lavoratori, pensionati e cittadini.
L’arretramento valoriale e culturale, l’individualismo e l’egoismo che attraversano la società non ci lasciano indenni; per questo la formazione deve partire dalla de-sindacalizzazione e spoliticizzazione che attraversano il mondo del lavoro e un pezzo del nostro gruppo dirigente diffuso.
Un gruppo dirigente diffuso, tra cui occorre considerare a pieno titolo l’apparato tecnico, che deve essere maggiormente valorizzato e coinvolto nel confronto politico e nelle scelte assunte, perché ricopre ruoli e svolge funzioni fondamentali. Nel quadrato rosso tutte e tutti hanno la stessa dignità, rivestono, pur nelle naturali differenze, importanti funzioni e sono, devono essere considerati parte essenziale della nostra organizzazione. Tutte e tutti devono essere formati e responsabilizzati, riconosciuti e valorizzati.
Gli iscritti e le iscritte, i giovani, i delegati, i migranti, gli operatori degli sportelli devono essere tra i soggetti principali delle attività di formazione. Oltre a quello digitale occorre organizzare anche un progetto di “alfabetizzazione” politico-sindacale.
La formazione, per noi, ha un valore centrale per la militanza nella CGIL, per diffondere senso di appartenenza e consapevolezza di essere parte integrante di una storia che affonda le radici nella vita sociale e politica del paese da oltre cento anni. Si tratta di un passaggio dirimente, ancor più necessario in ragione di un reclutamento e di assunzioni dettate da criteri basati sull’appartenenza politica e sempre meno dalla provenienza dai luoghi di lavoro.
Occorre rendere esigibile a tutti i livelli il diritto, oltre che all’informazione da trasformare in conoscenza, in saperi ed esperienza, a una formazione estesa e di qualità. Molto sta cambiando, l’effetto invasivo, distorcente della legislazione nella contrattazione e nel mercato del lavoro, la presenza nei luoghi di lavoro di più tipologie di contratto, lo spostamento dal diritto collettivo al diritto individuale, rendono non solo politicamente ma tecnicamente più difficile fare il delegato e il sindacalista. Le competenze, le capacità, il ricambio generazionale, in particolare con le energie provenienti dai luoghi di lavoro, devono tornare centrali nell’individuazione delle e dei futuri dirigenti. Deve cambiare il nostro modo di fare sindacato, riaffermando i valori e aggiornando le conoscenze necessarie.
La formazione, più compiuta e di qualità, dev’essere concepita sempre più come investimento: organizzata e coordinata dalla CGIL, obbligatoria per il gruppo dirigente a tutti i livelli e garantita per le delegate e i delegati. Occorre elevare il livello di conoscenza generale e accrescere il profilo identitario, rafforzare e fornire le competenze nell’esercitare una rinnovata contrattazione di qualità, per rinsaldare, attraverso la ri-sindacalizzazione, il rapporto tra l’azione contrattuale in difesa della condizione lavorativa individuale e collettiva e la funzione confederale, per ridare forza e senso al tesseramento. Tutto questo avendo particolare riguardo nei confronti di chi fa contrattazione nei luoghi di lavoro e ricopre il ruolo difficile di delegato Rsu, di rappresentante sindacale aziendale o della sicurezza o di rappresentante sindacale di bacino del settore artigiano. Figure fondamentali che vanno riconosciute e adeguatamente formate.
Nella SCHEDA DEMOCRAZIA E PARTECIPAZIONE va evidenziato che neanche la Cgil è esente da processi di erosione della democrazia. Negli ultimi anni abbiamo subito fenomeni di centralizzazione e verticalizzazione delle decisioni, c’è stata un’eccessiva personalizzazione e sovraesposizione della figura del segretario generale – a tutti i livelli –, si sono erose le pratiche di collegialità, sono stati progressivamente esautorati gli organismi dirigenti statutari.
È condivisibile l’obiettivo dell’istituzione, nelle Categorie e nelle Camere del Lavoro, dell’assemblea delle delegate e dei delegati. Ma se vogliamo che siano una vera istanza di partecipazione e decisione dobbiamo chiarirne con precisione i compiti, la periodicità della loro convocazione, il diritto a un certo numero dei loro componenti e/o di componenti del CD di chiederne la convocazione “straordinaria”, le risorse che vengono messe a disposizione per il loro reale funzionamento.
Nella SCHEDA CONTRATTAZIONE SOCIALE E TERRITORIALE PER LO SVILUPPO SOSTENIBILE va indicato con chiarezza che obiettivo della contrattazione sociale e territoriale è la salvaguardia, l’estensione e il rafforzamento del welfare pubblico e universalistico (incluso il collocamento pubblico, sul quale, ovviamente, la battaglia politica è di livello nazionale), mentre va avviata una chiara politica di ridimensionamento del welfare contrattuale per porre fine a politiche sindacali che allargano le diseguaglianze tra lavoratori (quelli che possono accedere o no al welfare contrattuale) e tra questi e i pensionati (che ne sono esclusi).
Non ci convince la SCHEDA relativa alla COMUNICAZIONE.
In questo ambito sono state fatte scelte che hanno coinvolto solo i segretari generali, relegando ad un ruolo di mera “ratifica” il Direttivo nazionale. C’è un rischio, non sufficientemente discusso collettivamente, di delega ad un’agenzia esterna privata di tutto il patrimonio informativo e comunicativo dell’organizzazione e anche della piattaforma per la gestione della democrazia interna. Nella scheda si fa un’elencazione dettagliata di azioni, ma senza trarre alcun bilancio di quanto avviato, ormai ad oltre un anno dalla sua implementazione. Non è affatto chiaro quale sia l’impatto, dentro e fuori l’organizzazione, della strategia comunicativa di “Collettiva”, mentre la stessa scelta di un ‘marchio’ diverso da “Cgil” – che una sua ampia base e una sua audience di massa – non risulta ancora sufficientemente motivata e giustificata. Tutto questo meriterebbe una discussione molto più approfondita di quella che si potrà fare nell’Assemblea organizzativa, dove si affrontano molti temi, diversi dei quali di un maggiore spessore strutturale.
Il sugo di tutta la storia…
Il cuore dell’Assemblea Organizzativa dev’essere il radicamento confederale territoriale, l’estensione e la qualità della contrattazione, insieme al proselitismo e al tesseramento. E alla formazione del gruppo dirigente, delle delegate e dei delegati.
Le scelte assunte vanno sperimentate e poi verificate al Congresso, devono essere supportate dallo spostamento delle risorse (economiche e di funzionari/dirigenti), sempre più scarse, verso il territorio in funzione del rinnovamento sinergico delle funzioni delle strutture e dei servizi, e a supporto dei progetti di reinsediamento, costruiti e condivisi dai centri regolatori, le Camere del lavoro, le categorie e i servizi.
Dev’essere il luogo per un confronto partecipato e costruttivo nel quale va rafforzato il profilo identitario della confederazione, il suo essere soggetto politico generale, democratico, autonomo e plurale di rappresentanza sociale, che fonda la sua essenza nei principi e nei valori costituzionali, nella contrattazione, nella democrazia partecipata.
Dev’essere il luogo dove ricercare e adeguare linguaggi, modalità organizzative e forme di rappresentanza, dando valore a ciò che siamo e facciamo, riconoscendoci per essere riconosciuti, riscoprendo il senso di appartenenza e di solidarietà.
L’Assemblea Organizzativa è un’opportunità da non perdere per realizzare quell’autoriforma, difficile ma indispensabile per contrastare gli attacchi, superare le difficoltà nel rappresentare la complessità del mondo del lavoro e nell’esercitare la contrattazione.
È per noi un’occasione da non perdere: si dovrà decidere, senza forzature statutarie di carattere generale né salti nel buio, come ripensarci e uscire insieme da questo tempo difficile, con lo sguardo rivolto al futuro.
20 settembre 2021