Giacinto Botti
Referente nazionale Lavoro Società per una Cgil unita e plurale
La memoria non è storia ma è parte essenziale di essa, necessaria per non disperdere, per trasmettere esperienze tra generazioni, per una conoscenza e una lettura mai neutra dei fatti.
È con la memoria, la coscienza formatasi nella concretezza del vissuto, nelle analisi e nello studio che possiamo dare una lettura complessiva e non episodica di ciò che avviene, compresa la mattanza, che oggi suscita lo scandalo generale e occupa le prime pagine dei giornali, avvenuta nel carcere di S. Maria Capua Vetere nell’aprile del 2020.
Quella mattanza ci riporta, per alcuni aspetti e certe similitudini, a quanto di grave, di violento successe a Genova nel luglio del 2001 durante il G8.
Le dichiarazioni della Ministra della Giustizia Marta Cartabia, che ha definito quel massacro di detenuti inermi da parte delle guardie carcerarie “un’offesa e un oltraggio alla dignità delle persone e della divisa”, parlando di “agenti che hanno tradito la Costituzione” sono importanti, ma suonano parziali, riduttive e persino devianti.
Quel brutale pestaggio non è stato un fatto isolato perpetrato da guardie fuori controllo, ma un’azione concertata e organizzata su comando avvenuta in più carceri.
Sono stati massacrati molti detenuti ma non tutti, non sono stati colpiti i camorristi, i protetti, i colletti bianchi della camorra e della politica. Non è un caso.
Le complicità, i depistaggi, le falsità dei dirigenti, l’estraneità di alcuni ministri e politici e il coinvolgimento di altri, la falsificazione delle cartelle sanitarie, le manipolazioni dei fatti, le manomissioni delle prove, l’alterazione dei filmati e delle foto, le dichiarazioni dei comandanti delle guardie carcerarie “affette da falsità ideologiche”, come dichiarano esponenti della magistratura, ci riportano nella peggiore Italia. Le “violenze di Stato” esercitate da indegni uomini in divisa coperti dai superiori, i depistaggi, i raid punitivi, le rappresaglie mascherate da perquisizioni, le coperture e le responsabilità diffuse dei vertici dello Stato li abbiamo vissuti e sentiti in quelle tragiche giornate di Genova.
Abbiamo il dovere di non dimenticare e di trasmettere, con la nostra memoria, la storia del Paese così come l’abbiamo conosciuta, attraversata, vissuta, subita o contrastata, in prima persona e collettivamente.
Tra poco ricorrerà il ventennale delle straordinarie giornate del G8 del 19, 20 e 21 luglio 2001, giornate di partecipazione e di mobilitazione “No Global” organizzate, anche sul piano internazionale, dal Genoa Social Forum.
Come dimenticare le cariche continue, i rastrellamenti, l’uso di armi da fuoco e sbarre di ferro da parte delle forze militari dello Stato, le terribili violenze, le torture che funestarono quelle giornate? Per chi c’era, per le centinaia di migliaia di persone, di ragazze e di ragazzi, per quella moltitudine di donne e uomini rimane una ferita mai chiusa; vive per la materialità del vissuto ancora nella memoria, negli occhi e nell’animo di molti. In quei giorni, per una settimana, Genova fu una città militarizzata, blindata. Forze militari, carabinieri, polizia, finanza, con navi ed elicotteri, occuparono e presidiarono la costa ligure e il territorio.
In quei giorni si scrisse una delle pagine più oscure della storia della Repubblica italiana. La scuola Diaz e la caserma di Bolzaneto furono conosciute nel mondo come i luoghi della vergogna italiana. Le forze dell’ordine furono gli strumenti della repressione, ma i governi europei, il governo Berlusconi, i servizi segreti, i generali, i comandanti, i ministri, i prefetti della catena di comando e tanti politici di destra furono i mandanti e i veri colpevoli delle violenze. Mai nessuno ha realmente pagato, e tanti hanno fatto carriera. La speranza è che non succeda anche per la mattanza nelle carceri.
A Genova in quei giorni, in quelle manifestazioni, in quegli incontri si respirava l’entusiasmo degli ideali, si camminava con la forza delle idee, si viveva con l’utopia del possibile e il bisogno del cambiamento.
Quella che allora sembrava un’eresia oggi è una necessità per la sopravvivenza della terra e il benessere umano. È grazie a quei movimenti globali, a quelle manifestazioni di massa, a chi c’era se oggi possiamo ancora lottare per il cambiamento, difendere la democrazia e salvare insieme il lavoro, i diritti e l’ambiente.
Il 19 luglio una manifestazione di oltre 50mila persone, indetta dalla Rete Lilliput, da Legambiente, Arci, Attac, le comunità S. Benedetto di don Andrea Gallo, dalla Marcia delle donne e dai Beati i costruttori di Pace, per i diritti degli extracomunitari e degli immigrati attraversò la città, raccogliendo la simpatia e la solidarietà dei genovesi. Fu oggetto di provocazioni e di violenze.
Il 20 luglio, le piazze tematiche raccolsero, in maniera del tutto pacifica, decine di migliaia di persone. Un grande corteo pacifico con migliaia di persone provenienti dall’Europa e dal mondo, una generazione di ragazzi, di donne e uomini che mettevano in discussione il sistema di sviluppo e le politiche liberiste, fu affrontato da continue cariche, scontri e violenze, che continuarono per tutto quel tragico giorno. Fu durante una delle tante violente cariche che in piazza Alimonda fu ucciso il giovane Carlo Giuliani con un colpo di pistola sparato a distanza ravvicinata da un giovane carabiniere di leva di vent’anni, Mario Placanica. L’omicidio di Carlo Giuliani, come altre morti per mano dello Stato, è ancora in attesa di “verità e giustizia”.
Sappiamo la dinamica e poco altro. Durante la ritirata, nel pieno dello scontro, un “Defender” con tre giovani carabinieri a bordo, tra i quali Mario Placanica, rimane bloccato in piazza Alimonda. Da quel mezzo dei carabinieri partì, si dice per legittima difesa, lo sparo che colpì Carlo. Lo stesso mezzo, ripartendo, passò due volte sul suo corpo rimasto a terra, ancora vivo. Fu preso a calci da un ufficiale e a nessuno fu permesso di avvicinarsi e prestare soccorso; a un giornalista presente, sotto minaccia, furono sequestrati i rullini e rotta la macchina fotografica.
Non fu permesso neppure a un parroco di benedire il corpo. La famiglia di Carlo fu avvisata della morte ore più tardi. Nel frattempo erano già partite le montature, le false notizie, le provocazioni, le mistificazioni e i depistaggi: l’informazione del potere era già in campo. Alcuni anni dopo lo stesso carabiniere Placanica, cui fu addossata la colpa di aver sparato a Carlo Giuliani, negò di averlo fatto.
Il 21 luglio ancora una enorme manifestazione di massa, l’incontro tra generazioni, tra il mondo del lavoro, le associazioni e i movimenti era visibile, palpabile e verificabile nei cortei, tra gli striscioni e le tante bandiere. I militanti della Fiom, di Alternativa Sindacale Cgil arrivarono organizzati con mezzi propri e con pullman da tante città d’Italia.
Mentre il corteo pacifico si stava formando e avviando, fu attaccato da cariche violente, i partecipanti presi a manganellate e soffocati dai lacrimogeni. Tante ragazze e ragazzi, tante persone anziane si trovarono in grande difficoltà, impaurite e sole.
Molte e molti giovani, terrorizzati e in preda al panico trovarono protezione, accoglienza e aiuto tra gli striscioni e nel pezzo organizzato dai militanti e dirigenti della Fiom e di Alternativa Sindacale. Quella sera e nel corso della notte avvennero i massacri, le torture, le violenze alla scuola Diaz e alla caserma di Bolzaneto. Nel primo caso fu un massacro senza alcuna ragione se non una vendicativa rappresaglia verso giovani, giornalisti, manifestanti sfiniti che stavano riposando o dormendo. Tra le tante motivazioni menzognere delle forze di polizia ci fu la presunta presenza di soggetti violenti, quei “black bloc” tanto utili quanto utilizzati, responsabili di devastazioni e di assalti, lasciati circolare liberamente con la complicità di agenti infiltrati al loro interno.
Si disse che la mano che sparò e uccise Carlo Giuliani fu del giovane carabiniere, e che le violenze inaudite furono opera esclusivamente di singoli militari o di qualche comandante incapace. Le vere responsabilità, politiche, morali e giudiziarie furono di tutti coloro che orchestrarono, pianificarono la macelleria di Stato, di coloro che erano alla catena di comando e a dirigere le operazioni in una stanza della questura di Genova.
In quella stanza, tra gli altri, c’era il vicepresidente del Consiglio del governo Berlusconi, Gianfranco Fini, che in seguito fu defenestrato per una faida interna a Forza Italia, non certo per la responsabilità di quel massacro.
Il ministro degli Interni di allora era quel Claudio Scajola che due mesi dopo dichiarò di aver dato il libero utilizzo di armi da fuoco in difesa della famosa e invalicabile “zona rossa “. Questo indegno personaggio fu arrestato nel 2014 e condannato in primo grado a cinque anni di carcere per aver favorito la latitanza dell’ex parlamentare Amedeo Matacena, compagno di partito di Forza Italia.
Restò impunito, lui come altri, per le gravi responsabilità su quanto avvenne in occasione di quel G8.
A Genova c’erano tanti stranieri, tanti italiani. Tanto popolo. In quei giorni si sono vissute giornate memorabili, tanto entusiasmanti quanto terribili e violente. Si è vissuto un incontro mai visto tra generazioni e tra paesi, tra il mondo del lavoro e i tanti movimenti e le associazioni pacifiste, libertarie, ecologiste, anticapitalistiche, femministe. Una partecipazione consapevole, militante, radicale e alternativa.
Quel movimento doveva essere spezzato, umiliato, frantumato. Faceva paura e destabilizzava l’ordine politico e sociale, metteva in discussione l’ideologia del capitale e del profitto.
Molti videro e tanti subirono inaudite e brutali violenze. Molti di quei giovani subirono conseguenze psicologiche, gravi traumi e tanti, purtroppo, abbandonarono l’impegno politico. L’obiettivo del potere era stato raggiunto.
Si tratta, certo, di una lettura di parte, ma la sentiamo come un’incontrovertibile verità che ha trovato peraltro autorevoli conferme.
Il 7 aprile 2015 la Corte Europea dei Diritti dell’uomo dichiara che in quei giorni a Genova e durante l’irruzione nella scuola Diaz è stato violato l’articolo 3 della Convenzione che stabilisce il “divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti”. Da quella scuola giornalisti, parlamentari, cittadini, videro uscire decine di giovani in barella, alcuni di loro con lesioni gravi e permanenti.
Il 5 marzo 2010 i giudici di appello di Genova emettono 44 condanne per i fatti della caserma di Bolzaneto, e nonostante l’avvenuta prescrizione condanna gli imputati almeno al risarcimento delle vittime. Amnesty International afferma che la sentenza è significativa per il riconoscimento delle “gravi violazioni dei diritti umani”.
Le sentenze parlano di “un clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”.
Il 26 ottobre 2017 la Corte Europea condanna l’Italia a risarcire 48 delle vittime ricorrenti, molte delle quali straniere. Nella sentenza si sottolinea che nessuno dei responsabili delle atroci violenze ha fatto un giorno di carcere.
Questo è successo a Genova nel 2001. Questi sono i fatti.
La storia ha poi dato ragione a quanti, da Seattle a Porto Alegre, da Genova a Firenze contestavano la globalizzazione liberista, centrata sul profitto e sullo sfruttamento delle persone e del pianeta.
Si manifestava e si proponeva, si lottava per “un mondo migliore possibile”.
La società civile, i movimenti, le comunità, i pacifisti e gli ecologisti, le associazioni, e i partiti, i cattolici e i laici c’erano. C’era un pezzo del mondo del lavoro, c’era la Fiom Cgil, noi di Alternativa Sindacale, la sinistra sindacale Cgil di allora, tante e tanti iscritti ai sindacati, alla nostra Cgil.
Non c’era purtroppo ufficialmente la Cgil che, ancora imbrigliata in una linea politica e sindacale non adeguata, non seppe cogliere il valore politico e sociale che rappresentava quella manifestazione e quel popolo di giovani, di donne e lavoratori.
Una posizione successivamente modificata, facendo della Cgil uno dei soggetti portanti del primo Forum Sociale Europeo a Firenze, nell’autunno del 2002, e del grande movimento italiano e planetario contro la guerra, sfociato, tra l’altro, nelle enormi manifestazioni del 15 febbraio 2003.
In occasione del decennale la Cgil seppe ulteriormente rivedere le sue posizioni, firmando con l’Arci un significativo documento dal titolo “Genova per noi”, partecipando e organizzando l’evento culturale e politico realizzato a Genova.
A maggior ragione oggi, quando è necessario ribadire il nostro impegno sul terreno della difesa della democrazia, non dovrebbe far mancare la sua presenza, la sua rappresentanza nel ventennale dei prossimi giorni.
La nostra Costituzione è stata tradita e calpestata in molte occasioni da chi dovrebbe difenderla e applicarla. Troppe volte abbiamo dimostrato di essere un Paese senza memoria, che sembra aver perduto la conoscenza e la capacità di riflessione storica.
La Cgil, da sempre baluardo di difesa della Costituzione, dei diritti e della nostra democrazia, luogo di incontro delle generazioni non può perdere la sua memoria storica, la sua capacità di analisi, soprattutto in questa fase di crisi globale e di necessario cambiamento.
La nostra è una democrazia giovane e debole. Siamo un Paese che non ha mai realmente fatto i conti con il ventennio fascista e le sue nefaste conseguenze. La politica assente, debole, incapace, revisionista, trasformista e consociativa è corresponsabile, quando non colpevole, delle tante ombre nere, delle nefandezze che sviliscono la Costituzione mettendo in pericolo la nostra democrazia.
La nostalgia per un vergognoso ventennio, il cancro del fascismo e del razzismo, la voglia dell’uomo forte non sono ancora stati estirpati in una parte della popolazione, nel paese reale e nelle istituzioni.
Dopo oltre 75 anni dalla Liberazione dal nazifascismo, un filo nero di natura e di cultura eversiva e antidemocratica continua a percorrere il Paese, attraversa settori dello Stato, si annida e occupa molte istituzioni e centri di potere finanziario e politico.
La nostra Costituzione e la nostra democrazia vanno ancora difese, conservate e coerentemente applicate ed esercitate dal “popolo sovrano”.
C’è un cancro che ci logora e che il paese migliore e democratico non è mai riuscito ad estirpare per complicità, revisionismo, opportunismo, cinismo, ignavia e convenienza della politica: dobbiamo sconfiggerlo. Continuiamo a essere il Paese delle prescrizioni, dei colpevoli che non si trovano, delle verità nascoste in un baule pieno di segreti di Stato mai aperto, nonostante tanti politici e altrettanti governi lo abbiano promesso.
Siamo il Paese, lo Stato che mentre chiede giustamente al governo egiziano verità è giustizia per l’assassinio di Giulio Regeni, ma con poca convinzione e coerenza, lascia che passino undici anni di mistificazioni, depistaggi, falsità, campagne diffamatorie da parte di uomini dello Stato, di deputati di destra e comandanti dei carabinieri, prima di fare luce sulla morte, le torture e le violenze subite in una caserma e in carcere dal giovane Stefano Cucchi. Solo una donna straordinaria, una sorella tenace, una famiglia determinata hanno potuto conquistare nelle aule di tribunale giustizia, verità e dignità per quel loro povero ragazzo. E solo grazie al pentimento di un carabiniere si è potuta provare una verità evidente sin dai primi giorni.
Questa è una delle facce oscure di un Paese attraversato da una profonda crisi dei valori, della solidarietà, da una pericolosa regressione culturale e democratica che è presente nello Stato, nelle istituzioni, nelle forze politiche di destra e non solo, nel fronte padronale più conservatore e liberista.
La memoria storica ci ha insegnato che nulla è scontato, nulla è mai per sempre.
La Cgil, com’è nella sua storia, sarà in campo per difendere il lavoro, i diritti, la nostra democrazia faticosamente conquistata con la lotta antifascista e affermata con la nostra preziosa Costituzione repubblicana.
8 luglio 2021