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Lavoro e libertà - di Maurizio Brotini

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(Intervento alla videoconferenza del 27 e 28 novembre 2020, organizzata da Democrazia e Lavoro, avente per tema “Innovazioni tecnologiche, transizione ecologica, crisi sanitaria e di sviluppo, nuovi lavori e nuovo sfruttamento. La Cgil e le sfide del futuro”)

 

Ringrazio Adriano ed i compagni e le compagne di Democrazia e Lavoro per l’invito ad intervenire a questa due giorni dal programma ambizioso.Lo condivido: mai come oggi, come Cgil tutta - nelle sue complesse articolazioni di pensiero e di strutture - e come variegate sparse membra della sinistra politica, dobbiamo porci interrogativi all’altezza della fase che abbiamo di fronte.Non dobbiamo misurarci solo su quello che è dietro di noi, ma su quanto noi, come singoli e come organizzazione, saremo in grado di fare per determinare il futuro.Di fare e di pensare, in una Cgil unita e plurale.Per questo vi propongo una riflessione su Lavoro e Libertà.

1. La crisi del 2007-8 ha rimesso in moto la Storia, riaprendo nel dibattito intellettuale allargato e nelle pratiche sociali e politiche un nuovo spazio - non residuale né marginale - di possibilità.

E’ del 2008, e lo prendiamo come testimonianza paradigmatica, il saggio del compianto intellettuale-politico Mark Fischer sulla possibile rimessa in discussione del realismo capitalista e della thatcheriana mancanza di alternative che renderebbe più facilmente pensabile la fine del mondo che quella di un sistema economico-sociale determinato come il capitalismo. La crisi rimette in discussione l’eterno presente senza passato né futuro, disvelando la natura ideologica del capitalismo come dato di natura e migliore dei mondi possibili.

Questa apertura ha visto fiorire pubblicazioni ed interventi di critica al neoliberismo ed alle politiche di austerità, una particolare attenzione alle diseguaglianze sociali e territoriali frutto di processi di polarizzazione e di concentrazione, la rimessa in circolo dello stesso lemma capitalismo e una nuova attenzione, non solo filologico-biografica alla vita, opere, pensiero e prassi di due intellettuali-rivoluzionari come Marx ed Engels. La stessa Scuola di Francoforte, che aveva sostanzialmente espunto dal proprio asse di ricerca la materialità della questione sociale, è tornata a rileggere criticamente il capitalismo ed a nuovamente interrogarsi sulle diseguaglianze: “Tempo guadagnato” di Wolfang Streek mette infatti al centro della propria analisi, assieme al processo reale di costruzione europea, la costante di fondo delle contraddizioni del modo di produzione e riproduzione sociale capitalistico, paventando la rottura della possibilità stessa di conciliare capitalismo e democrazia.

Questa rinnovata attenzione critica è fortemente compenetrata da fenomeni sociali e politici di critica e di pratica anticapitalistica - e più complessivamente progressiva e socialista - che hanno visto il nascere e consolidarsi dell’esperienza di Podemos in Spagna, la riconquista – al netto della sconfitta successiva – del Labour Party da parte di Jeremy Corbyn e l’esperienza di socialismo all’interno del Partito democratico americano – che poi partito non è – sulla scia di Bernie Sanders. A noi in Italia è toccata invece l’esperienza del Movimento 5 Stelle e del renzismo.

 

2. La fine del fordismo e l’avvento della rivoluzione digitale hanno avviato un filone di riflessioni sul lavoro che hanno posto al centro dell’attenzione la libertà, intesa come capacità di autorealizzazione, “nel” lavoro. Le lotte del movimento operaio del periodo della prima industrializzazione fin dentro la fase fordista-taylorista avevano invece posto al centro della loro iniziativa un conflitto che vedeva cercare sul piano politico il riscatto “del” Lavoro. Il Lavoro riscattava se stesso come soggetto politico attraverso la costruzione di partiti politici che portavano nelle istituzioni i bisogni dei lavoratori e delle lavoratrici, sia nelle varianti riformiste e socialdemocratiche che in quelle radicali e rivoluzionarie. Il Lavoro si riscattava e trovava la sua legittimazione come mallevadore di una società nuova, non necessariamente trovando un senso diverso al momento lavorativo. La realizzazione era dunque esterna. La mancata, e sostanzialmente impossibile, realizzazione “nel” lavoro si riscontrerebbe anche nelle file riformiste del movimento operaio: prova ne sarebbe la parola d’ordine – seppur suggerita dallo stesso Marx – di ridurre il tempo di lavoro per avere più tempo a disposizione per la realizzazione delle individuali aspettative e spinte alla creatività.

Si sono interrogati sul piano filosofico su questo tema, con un esplicito ed esplicitato confronto e reciproco arricchimento Giovanni Mari col suo “Libertà nel lavoro. La sfida della rivoluzione digitale” e Remo Bodei, che ha dedicato gran parte della sua ultima pubblicazione a queste riflessioni (“Dominio e sottomissione. Schiavi, animali, macchine, Intelligenza Artificiale”). Per Mari, riprendendo le riflessioni di un sindacalista-intellettuale come Bruno Trentin, la libertà viene prima dell’uguaglianza e questa libertà consisterebbe nell’“autorealizzazione della persona nel lavoro”. La fine del fordismo “ripropo[rrebbe] la persona nel lavoro” e questo permetterebbe “di mettere in primo piano un’idea trascurata dalla dialettica economica” come quella precedentemente esposta. Oltre a definire il lavoro nella “smart factory” (fabbrica intelligente) come caratterizzato dall’essere sostanzialmente un linguaggio, il lavoro 4.0 caratterizzato dall’“Internet delle cose” viene identificato come un atto linguistico performativo dove il dire è senza mediazioni il fare.  Questo radicale cambiamento farebbe divenire le “arti meccaniche” arti liberali, ricomponendo una dicotomia tra pensiero ed azione che per tutto il Medioevo aveva svalorizzato il lavoro manuale. Non solo, questo renderebbe possibile superare la contrapposizione aristotelica tra la libertà afferente alla sola sfera della politica: solo chi non lavora è libero. Solo la sfera della politica permette l’autorealizzazione proprio in quanto attività liberata dal bisogno di essere costretti a provvedere al proprio sostentamento attraverso il lavoro, occupazione che spettava ai servi. Solo il lavoro intellettuale degli uomini liberi, mai quello manuale apriva possibilità di autorealizzazione. Un cambiamento, quello che staremmo vivendo, dove macchine ed intelligenza artificiale, secondo una suggestione ripresa da Bodei ma non accolta da Mari, potrebbero sostituire il lavoro liberando l’uomo dal bisogno.

Nella storia conosciuta il lavoro avrebbe trovato la propria realizzazione interna nelle grandi figure degli artisti rinascimentali, che nella libertà esercitata anche nei confronti del committente - derivante dalla quantità e qualità di sapere posseduta e dalla possibilità di tradurre l’idea in opera - erano stati in grado di riscattare il lavoro dalla condanna sia biblica che aristotelica. In questa lettura sia Hegel che Marx si rifarebbero direttamente alla rivalorizzazione del lavoro manuale ed artigiano operata dal Rinascimento.

Per Marx – secondo Mari - l’autorealizzazione “nel” lavoro sarebbe invece sempre differita. Il fatto che il lavoro subordinato sia sempre estraniato e/o alienato negherebbe all’uomo sia la “gioia della produzione” che il “godimento del prodotto”.

Vero è che nessun pensatore e militante politico era riuscito a imporre la questione del lavoro per la comprensione dello sviluppo sociale come Marx seppe fare, ma il lavoro al quale il Moro farebbe riferimento sarebbe il lavoro uscito dalla rivoluzione industriale, dove ciò che viene indicato come perso sarebbe sostanzialmente il lavoro artigiano preindustriale, dotato di “indipendenza” e “attrattiva”. Marx oscillerebbe, nel “Manifesto” e nei “Grundrisse” per arrivare al “Capitale”, dalla possibilità di realizzarsi “nel” lavoro per passare ad un differimento teorico-politico che si tradurrebbe nella centralità della libertà “dal” lavoro, attraverso la drastica riduzione delle ore impegnate nel lavoro per avere il tempo da dedicare alle attività scelte e creative. 

Nel “Capitale”, sostanzialmente, il discorso su autorealizzazione e libertà “nel” lavoro verrebbe rimandato al tempo in cui la scienza sarà intrecciata e compenetrata col lavoro. La condizione che Mari fa presupporre a Marx per la risoluzione del tema si sarebbe realizzata proprio in questo lasso temporale. La terza e soprattutto la quarta rivoluzione industriale, grazie alla quantità di scienza e sapere necessarie al processo produttivo, ricollocherebbero l’uomo e le sue conoscenze al centro della scena: la fine del fordismo trascina la fine dell’operaio massa che subiva i processi di dequalificazione del lavoro descritti da Braverman, i nuovi sistemi di produzione darebbero vita ad una nuova figura sociale come il lavoratore della conoscenza entro il capitalismo cognitivo. Uno stadio dello sviluppo delle forze produttive che entro un involucro ancora capitalistico produrrebbe forme di socializzazione e di autonomia che renderebbero possibile la realizzazione “nel” lavoro, aumentando la stessa forza contrattuale di ogni singolo lavoratore. Una ricostruzione indubbiamente dotata di grande fascino, che prova a concettualizzare filosoficamente le trasformazioni in atto nei processi produttivi, che Mari ben conosce per la frequentazione ed i lavori pubblicati assieme ad esponenti sindacali che su questi temi hanno riflettuto a partire dal lascito di Bruno Trentin. Ma sottoposta da subito ad una serie di considerazioni critiche. Quanti siano realmente i soggetti coinvolti: ovvero se siamo di fronte ad un fenomeno capace di determinare la tendenza di fondo e generale di un’epoca. Occorre considerare la stratificazione dei modi di produzione e delle modalità concrete di lavoro che vedono crescere forme servili e schiavistiche. Inoltre, fatta salva l’osservazione che non siamo di fronte ad un lavoro “scelto”, chi decide cosa produrre? Ovvero, se anche nelle fabbriche intelligenti si realizzasse una forma di cooperazione sociale tra pari nel momento della produzione, chi ha sempre e comunque il potere della scelta dell’oggetto della produzione?  Ma critiche ancor più radicali possono essere mosse all’impianto complessivo della proposta, a partire dall’analisi dei processi sottesi alla stessa Intelligenza Artificiale e della natura del capitalismo delle piattaforme, non assimilabile alla semplice economia dei lavoretti. 

 

3. Il 29 settembre di questo anno l’Istat ha pubblicato un “Rapporto sull’organizzazione del lavoro in Italia”, con particolare riferimento ad orari, luoghi e soprattutto grado di autonomia.

Il Rapporto è stato costruito in base ad un questionario finalizzato a valutare “in che misura il lavoratore possa esercitare una certa autonomia in base alle proprie preferenze e necessità”. Come incisivamente il Rapporto ricorda il tema dell’indagine non riguardava solo la conciliazione dei tempi di vita con quelli di lavoro, ma era volto ad indagare i “margini di autonomia organizzativa, [le] forme di misurazione e [i] luoghi in cui essa viene svolta, [nonché] la penetrazione del lavoro nel tempo libero”. Indicatori rilevanti ad illuminare il tema della libertà “nel” lavoro e di quanto la sfera lavorativa informasse di sé tutta la vita degli uomini e delle donne in carne ed ossa.

L’indagine ha interessato, e somma, sia i lavoratori dipendenti che quelli autonomi, dove per i dipendenti i vincoli vengono dal datore di lavoro e per gli autonomi sostanzialmente dai clienti.

Oltre 7 occupati su 10, pari a 16,6 milioni di lavoratori, non hanno la possibilità di decidere l’orario di inizio e/o fine della propria giornata lavorativa, il 16,4% avrebbe invece piena autonomia nelle scelte e il 12%, pur dichiarandosi autonomo sarebbe soggetto ad alcune limitazioni. I soggetti più forti con maggiori capacità di autonomia sarebbero gli uomini, gli ultra cinquantenni e quelli con titolo di studio elevato. All’altro polo stranieri, giovani, donne, persone con basso titolo di studio ed occupati con contratto a tempo determinato. I datori di lavoro e gli autonomi “puri” senza dipendenti godrebbero invece di ampia autonomia nella definizione della propria giornata lavorativa. Il livello di autonomia nel definire contenuti e sequenza di lavoro per qualifica professionale vede manager ed assimilati al 78,3%, professioni esecutive nel commercio e nei servizi al 31,9% e le qualifiche operaie al 27,4%. Questi dati dicono con una certa evidenza che il margine di autonomia possibile dipende da che ruolo viene svolto nella divisione verticale del lavoro e che la precarietà ed il part-time involontario riducono praticamente a zero ogni ipotetico margine di autonomia.

 

4. Si potrebbe sostenere: ma la cosiddetta digitalizzazione, robotizzazione e sviluppo dell’Intelligenza Artificiale (I. A.), facendo scomparire la fascia bassa della polarizzazione del mercato del lavoro, preparano l’avvento ed incrementano i gradi di libertà della fascia superiore. Si tratterebbe quindi seguendo un principio “accelerazionista” non di contrastare, bensì di secondare lo sviluppo tecnologico e la variazione della composizione organica del capitale, dove il lavoro non sarebbe più misura del valore, secondo una interpretazione del marxiano frammento sulle macchine avanzata da una parte del movimento operaista. Ma è all’ordine del giorno la piena automazione? Tralasciando l’assunto filosofico se può darsi creazione di valore in assenza di lavoro vivo, è proprio vero che la realtà stia andando, anche come tendenza, in questa direzione? Antonio A. Casilli fa parte di quella schiera di militanti e studiosi che nega recisamente questa lettura. Recentemente è stato pubblicato da Feltrinelli il suo lavoro sul tema, anticipato da conferenze, convegni e lavoro sul campo. L’edizione originaria, in francese, spiega a differenza di quella italiana già nel titolo quella che è la tesi di fondo: “En attendant le robot. Enquete sur le travail du clic” (2019). L’editore Feltrinelli ha deciso di rimarcare nel titolo un altro aspetto, certamente presentissimo, della ricerca: “Schiavi del clic. Perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo”. Il saggio, che nasceva dal tentativo di indagare e generalizzare il “digital labor”, “si dà come obiettivo esplorare la dimensione umana invisibilizzata delle tecnologie che inquadrano il lavoro contemporaneo”.

“Come Godot, i robot non arriveranno mai. Sono solo una promessa trascendente che ha l’effetto, del tutto immanente, di disciplinare il lavoro di chi foggia le nostre app, le nostre soluzioni “smart”, i nostri algoritmi”.

Dietro l’I. A. ed il suo addestramento ci sono milioni di microlavoratori spersi in tutto il globo che compiono micromansioni per microcompensi. Non solo dunque il capitalismo delle piattaforme è consustanziale alla gig economy, ma lo stesso cuore della modernità tecnologica nasconde la rilevantissima presenza di una attività umana iper squalificata e ripetitiva.

Questi lavoratori - in quanto produttori di valore - sono milioni, e crescono al crescere della diffusione della digitalizzazione, dell’Intelligenza Artificiale e dei programmi e/o macchine che apprendono: sono consustanziali a tale sviluppo ed ineliminalibi, semplicemente non li vediamo perché non li cerchiamo, irretiti dal mito dell’automazione totale e della sostituzione del lavoro umano da parte delle macchine. Un pensiero ed una pratica che voglia essere - e si dica - critica non può volgere altrove lo sguardo, intrattenendosi col tema della servitù volontaria come paura di essere liberi. Magari recuperando l’assunto che la caratteristica peculiare del capitalismo possa sempre risiedere nella brutale formulazione marxiana D – D’, dove D è l’investimento iniziale che tramite la produzione di merce che all’atto della sua vendita rende una somma di danaro maggiore dell’investimento iniziale (D’).

 

5. Il lavoro si è articolato sino ad oggi nel nostro Occidente in due grandi segmenti: il popolo dell’Abisso, l’Inferno del lavoro precario, povero, al nero, della “gig economy” e degli schiavi del clic; il lavoro “stabile e garantito”, inglobato e sussunto nel blocco regressivo azienda-territorio, quello della partecipazione in via gerarchica, dell’autoattivazione dei lavoratori, della fabbrica-comunità (dove è escluso il conflitto e la rappresentanza autonoma del lavoro), dove vige il principio di collaborazione, di fedeltà, di condivisione dei valori dell’impresa e del mercato. Un mondo del lavoro permeato di situazioni di gravissimo sfruttamento, ricattabilità e riduzione in schiavitù, anche nel nostro Paese. Solo in Italia  nel settore agricolo 180.000 persone vivono condizioni di vulnerabilità e ricattabilità, e questo vale per parte importante del mondo delle costruzioni e delle cooperative (spurie) della logistica. Come riunificare il popolo dell’Abisso con i lavoratori e le lavoratrici occupati dentro il primo cerchio delle aziende, quello del contratto a tempo indeterminato, dei benefits e del welfare aziendali? Come riunificare socialmente, sindacalmente e politicamente chi vive immerso nel neo taylorismo digitale e chi vive avvinto nel pervasivo toyotismo? Come incrinare le retoriche manageriali della nuova ragione del mondo, dell’imprenditore di sé stesso, della meritocrazia assunta come valore, del mito della mobilità sociale? Come offrire una alternativa di massa a quanti viene fatto credere che la disoccupazione sia una colpa individuale, che rimanere in fondo alla scala sociale abbia – tutto sommato – un fondamento ed una legittimazione perché risponde alle capacità e volontà di ciascuno di noi; come falciare di netto le radici psicosociali della diseguaglianza che lungi da portare ad un moto di lotta collettiva provocano l’implosione autolesionistica fino al suicidio? Come liberare energie psicofisiche agli uomini flessibili impegnati quotidianamente a ricostruire un senso ed una identità nel variare forsennato delle traiettorie lavorative? È questa la maggiore sfida politica, antropologica e valoriale che chiunque non abbia dismesso una prospettiva di trasformazione radicale ha di fronte a sé. Una realtà già complessa e diversificata che dovrà misurarsi con gli ulteriori scenari aperti dall’impatto della pandemia. E’ infatti opinione diffusa che la pandemia da coronavirus avrà ripercussioni significative sugli scenari economici mondiali. Accelererà tendenze già in atto come l’accorciamento delle filiere produttive mondiali, metterà in profonda discussione il settore del consumo cultural-turistico come volano dell’accumulazione capitalistica, rimetterà al centro il ruolo dello Stato come prestatore e datore di lavoro di ultima istanza. Interverrà sulle stesse modalità di organizzazione del lavoro. Fra le tante e a volte inedite questioni che l’emergenza Covi19 sta ponendo ai lavoratori vi è il problema del lavoro a distanza. Lo “smart working” consentirebbe di conciliare più facilmente lavoro e vita privata. Se un orizzonte più o meno imminente di “governance” della forza-lavoro vertesse sulla valutazione dei risultati al di là e oltre il tempo di lavoro, si aprono scenari assai inquietanti, che mettono in forte discussione tanto la “misura” del lavoro, quanto la tenuta della tradizionale divisione tra tempo di lavoro e tempo di vita (già compromessa o di fatto resa più fluida in molte professioni). “Smart working”, invece di lavoro agile e intelligente, potrebbe infatti tradursi come lavoro senza fine. Siamo probabilmente vicini a un cambio di paradigma, a cui occorre attrezzarsi, dal punto di vista sindacale, politico e filosofico, aggiornando parole d’ordine – come la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario ed il reddito universale – e strumenti. La discussione sulle misure di contenimento rispetto alla diffusione del coronavirus hanno disvelato la fondamentale importanza del lavoro manuale di fabbrica nella produzione della ricchezza. Il velo della propaganda sulla scomparsa della classe operaia derivante dalla robotizzazione e digitalizzazione dell’economia crolla a fronte delle stesse affermazioni di Confindustria. Tutto questo al netto del lavoro a distanza e del decentramento produttivo delle catene del valore e della stessa logistica intesa come segmento stesso del ciclo produttivo. In realtà già sapevamo che il lavoro operaio (ed il lavoro manuale non operaio) non era affatto scomparso quantitativamente neppure nelle economie post-fordiste, ma adesso abbiamo la prova di quanto esso sia centrale ed insostituibile nella creazione di valore. Al fondo del modello di produzione e riproduzione sociale capitalistico c’è sempre il lavoro vivo. Occorre ripartire da una nuova rappresentazione neolaburistica del Lavoro, dei suoi bisogni ed interessi, dalla sua dimensione operaia di fabbrica ed artigiana, passando dal lavoro manuale non operaio, allargando il perimetro alle forme di lavoro giuridicamente autonome ma economicamente dipendenti: un blocco sociale che stia in campo sindacalmente e politicamente, a garanzia del valore fondante che al lavoro riconosce la nostra Costituzione. Ogni riflessione antropologica e filosofica sulla libertà “del” lavoro, “dal” lavoro e “nel” lavoro non può che passare dal crogiolo di un rinnovato protagonismo sociale e politico dei subalterni che dai luoghi della produzione si irradi nella società e nella sfera politico-istituzionale.

 

6. Come Cgil dovremmo fare la nostra parte. Dobbiamo.
Non è stagione da piccolo cabotaggio, bisogna stare in mare aperto.
Bisogna parlare a tutta la Cgil e a tutti i lavoratori e le lavoratrici.
Bisogna rifondare non UNA Sinistra Sindacale, ma LA Sinistra Sindacale.
Con pazienza e tenacia, con intelligenza e determinazione.
Con generosità.

 

IN una Cgil unita e plurale, PER una Cgil unita e plurale.
La vostra due giorni, care compagne e compagni, è un passo importante nella giusta direzione. 

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