Introduzione di Leopoldo Tartaglia, Direttivo nazionale Cgil
Abbiamo sentito l’urgenza di promuovere un momento di riflessione e dibattito di fronte all’atto di terrorismo con cui l’Amministrazione Trump, violando ogni norma del diritto internazionale e la sovranità di un paese formalmente alleato, ha assassinato all’aeroporto di Baghdad il generale iraniano Qassem Soleimani e il comandante delle milizie irachene Al Muhandasi.
Una vera e propria dichiarazione di guerra nei confronti dell’Iran che ha aperto la strada ad un’escalation di cui ancora non possiamo vedere i più tragici sviluppi in una regione già funestata da decenni di terrorismo e guerre, che hanno devastato paesi, territori, città, ucciso decine di migliaia di esseri umani, calpestato ogni diritto umano e civile, represso i tentativi di riscossa sociale e i grandi movimenti popolari e di lavoratori per la democrazia e i diritti sociali. La rappresaglia iraniana ha causato l’orrore dell’abbattimento di un aereo civile con 176 persone a bordo, altre vittime innocenti degli scenari di guerra, sempre più caratterizzati da tecnologie sofisticate che preservano i militari, ma colpiscono indistintamente la popolazione civile.
Un’urgenza di capire, ma soprattutto di fare, di mobilitarsi, come già è accaduto nei giorni scorsi a Pisa, Livorno, Padova, Lucca, e nelle decine di iniziative di sabato 25 gennaio, nella giornata internazionale di mobilitazione per la pace, tempestivamente rilanciata in Italia dalla Rete della Pace.
L’amministrazione Trump ha rapidamente archiviato la priorità e la centralità della lotta all’Isis e al Califfato per ritornare al “nemico” che ossessiona gli Stati Uniti dal 1979, quando la rivoluzione islamica rovesciò il dispotico regime dello scià Reza Palhavi, fedele interprete degli interessi americani, dopo che gli stessi Usa e la Gran Bretagna avevano fatto rovesciare con un colpo di stato, nel 1953, il tentativo democratico e progressista del governo Mossadeq.
Fu l’Occidente a spingere Saddam Hussein, allora “amico”, a scatenare la guerra contro l’Iran. Una guerra che ha provocato un milione di morti, ha messo in ginocchio i due paesi e dato a Saddam il pretesto di una sorta di stato di necessità per invadere il Kuwait e impossessarsi del suo petrolio.
Da allora Saddam è diventato nemico giurato degli Stati Uniti che nel 1990, con Bush senior, hanno scatenato la prima guerra del Golfo, distruggendo per buona parte il paese ma decidendo allora di fermarsi alla soglia del “cambio di regime”, anzi, lasciando mano libera al regime di massacrare curdi e sciiti che si erano mobilitati contro Saddam. Ne è seguito un embargo che ha causato migliaia di morti civili e il rafforzamento del consenso al regime di fronte a sanzioni con conseguenze così pesanti per la popolazione.
Nel 2003, dopo la tragica farsa della provetta esibita all’Onu da Colin Powell per dimostrare che Saddam deteneva armi di distruzione di massa, un’altra “coalizione di volonterosi”, guidata da Bush junior e Tony Blair, portò alla nuova guerra e all’invasione dell’Iraq, alla fine del regime di Saddam, alla distruzione di qualsiasi infrastruttura civile e amministrativa, al totale sbandamento delle forze militari e della sicurezza. Anche questo sbandamento delle forze di matrice sunnita diventerà “brodo di coltura” per Al Qaeda prima e l’Isis poi.
Certo, c’era stata nel 2001 la tragedia dell’11 settembre, degli attentati alle Torri Gemelle, migliaia di morti innocenti a New York. Ma la guerra al terrorismo proclamata dall’amministrazione Usa, i bombardamenti e l’invasione dell’Afghanistan, cui seguì l’Iraq, non erano certo un modo accettabile né coerente con il diritto internazionale per affrontare una minaccia della quale non si sono mai voluti indagare legami e sostegni con altre potenze regionali.
Mi riferisco all’Arabia Saudita e al legame indissolubile di interessi, petroliferi e non solo, tra gli Stati Uniti e i Saud, nonostante da quel paese siano venuti i sostegni principali alle correnti del fondamentalismo islamico, a milizie terroristiche che si muovono in vari paesi del Medio Oriente e dell’Africa; sia protagonista della guerra “dimenticata” in Yemen (sono oltre centomila i morti, la gran parte civili) e abbia attivamente sostenuto milizie impegnate in Siria contro Assad e alleate dello stesso Califfato di Al Baghdadi.
Nel 2011 scoppia la guerra “civile” in Siria. La repressione del regime di Assad delle prime proteste collegate all’ondata che si è sviluppata dalla Tunisia, all’Egitto, a un po’ tutti i paesi della Regione, in quella che abbiamo definito la “primavera” araba, si trasforma presto in una “guerra di prossimità”, con la quale Usa, Arabia Saudita, Turchia, Israele vogliono disfarsi del regime di Assad, mentre Russia e Iran intervengono a sostegno del regime.
Nello stesso anno, su spinta soprattutto di Sarkozy e della Gran Bretagna e il sostegno riluttante di Obama (ma convinto della Clinton) viene scatenata la guerra al regime di Gheddafi. L’Italia del governo Berlusconi – che solo qualche mese prima aveva accolto Gheddafi con tutti gli onori, siglato accordi miliardari, promesso compensazioni altrettanto miliardarie per il nostro passato coloniale – si accoda concedendo le basi e partecipando ai bombardamenti.
Da allora la Libia è frammentata in zone di influenza controllate da diverse milizie; nonostante i “processi di pace” sotto l’egida dell’Onu è divisa in due grandi entità rivali, una con il governo di Al Serraj a Tripoli e l’altra con l’esercito di Kalifa Haftar che risponde al Parlamento insediato a Bengasi. La guerra si è ulteriormente intensificata a partire dalla primavera scorsa e - anche di fronte all’assenza di qualsiasi intervento di mediazione europea - a milizie e mercenari stranieri già presenti da tempo sul terreno si sono affiancati da una parte contractors russi e dall’altra milizie filoturche già attive in Siria. Russia e Turchia – dopo aver determinato l’esito della guerra in Siria – si dispongono ora a determinare quello della guerra in Libia.
La recente conferenza di Berlino non è riuscita a garantire né una tregua duratura, né il rispetto dell’embargo alla vendita d’armi ai belligeranti, come denunciato dalla stessa missione Onu. È difficile sfuggire all’impressione che si sia trattato di un tardivo tentativo di recuperare un ruolo da parte di alcuni governi europei. Gli opposti interessi spingono alla continuazione del conflitto, non escludendo nei fatti quello che si nega a parole e nei documenti: la spartizione del paese tra Tripolitania e Cirenaica, come protettorati dei paesi stranieri che sostengono e armano i due contendenti.
Sono guerre dettate dagli interessi delle potenze mondiali (con la Cina che non interviene militarmente ma estende la sua influenza economica e politica) e delle aspiranti potenze regionali (Arabia, Iran, Israele, Turchia).
Ma sono ancora guerre del e per il petrolio. Per rimanere alle azioni più recenti, il generale Haftar blocca i pozzi petroliferi come arma di ricatto e di pressione prima e dopo la conferenza di Berlino; la Francia, con la Total, contende all’Italia, con l’Eni, il predominio sui pozzi libici; la Turchia si schiera con Al Serraj e invia truppe a difesa di Tripoli per consolidare il suo piano di sfruttamento dei giacimenti petroliferi del Mediterraneo orientale in joint venture con la Cipro turca e Israele.
L’anno che ha visto la più grande mobilitazione ambientalista contro i cambiamenti climatici con il movimento giovanile globale dei Fridays For Future si chiude con il fallimento della Cop 25 a Madrid e il nuovo anno si apre con la recrudescenza di guerre anche per il controllo di giacimenti di combustibili fossili, mentre quasi tutti i governi – a parte il negazionista Trump e il suo figlioccio Bolsonaro – continuano a fare dichiarazioni di impegno verso le energie rinnovabili e un modello di sviluppo sostenibile che quantomeno rallenti il riscaldamento globale. Quanto avviene in Nord Africa e Medio Oriente ci dimostra più di ogni altra cosa quanto si tratti di dichiarazioni propagandistiche e di impegni solo sulla carta mentre le azioni concrete sono tuttora determinate dagli interessi del complesso industriale-militare e delle multinazionali petrolifere, che continuano a privilegiare e a contendersi con ogni mezzo il controllo dei giacimenti di gas e petrolio!
Senza dilungarmi ulteriormente in ricostruzioni - certamente imprecise e sui cui interverranno con ben altre competenze i nostri interlocutori – sembra di essere di fronte ad un tragico Risiko in cui alleanze si compongono e scompongono a seconda degli interessi strategici e alla situazione che di volta in volta si determina sul terreno.
Quella che pareva un’incrollabile alleanza contro la barbarie dello Stato islamico si è sfaldata come neve al sole appena è arrivata – o è sembrata arrivare – la sconfitta militare del Califfato.
Lasciando nuove vittime. Le combattenti e i combattenti curdi del Rojava, che hanno dato un contributo determinate a fermare l’Isis, pagando il prezzo di oltre diecimila morti, sono stati subito abbandonati dagli Stati Uniti e dalla Russia alle ambizioni e alla vendetta del sultano Erdogan, che nella guerra di Siria voleva la testa di Assad, ma soprattutto evitare che si consolidasse quel grande esperimento di democrazia e federalismo costituito dalla regione autonoma del Rojava, proseguendo con l’invasione di quella regione della Siria la guerra interna che conduce da anni contro la minoranza curda.
Il popolo curdo da oltre un secolo cerca la strada per il riconoscimento del proprio diritto all’autodeterminazione ma è costantemente tradito e abbandonato dai paladini dell’”esportazione della democrazia” e delle “guerre umanitarie” – come hanno definito tutte queste aggressioni militari – che di volta in volta lo usa come carne da macello contro il nemico di turno.
E un altro popolo è la vittima, da oltre 70 anni, dell’influenza statunitense nella regione: il popolo palestinese, privato anch’esso della sua possibilità di autodeterminazione, cacciato dalla sua terra, imprigionato nell’enclave di Gaza e in una Cisgiordania sempre più espropriata dagli illegittimi insediamenti di coloni israeliani. Mentre i governi di Israele, dopo l’assassinio di Rabin, hanno impedito qualsiasi processo di negoziato e di pace, con il costante appoggio delle amministrazioni americane, l’Unione europea si è sostanzialmente defilata e accodata, rinunciando a qualsiasi intervento che condizionasse i governi israeliani ad un rapporto negoziale con i Palestinesi.
L’amministrazione Trump, anche qui, ha gettato benzina sul fuoco, assecondando tutte le violazioni del diritto internazionale dei governi Netanyahu e violando essa stessa le risoluzioni dell’Onu con il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele. E proprio oggi si appresta ad offrire su un piatto d’argento ai due contendenti delle ennesime elezioni politiche israeliane il suo “accordo del secolo”, che consentirebbe la piena annessione ad Israele di tutti i territori occupati ed espropriati in Cisgiordania e condannerebbe definitivamente i Palestinesi ad una situazione di perenne sottomissione allo stato israeliano.
L’ex ministro dell’interno dell’odio e della paura, neo citofonista, non ha mancato di dimostrare quanto il sovranismo nostrano sia indipendente dai voleri dell’amministrazione Usa e del governo israeliano. In un’intervista al quotidiano Israel Ha-Yom ha indicato come programma di un suo eventuale governo il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele e ha avuto l’ardire di mentire spudoratamente sui legami tra il suo partito e i fascisti di Casapound e Forza nuova e di additare come colpevoli di un antisemitismo che cresce anche nel nostro paese la presenza di cittadini di religione islamica. Così come è inaccettabile che lo stesso personaggio criminalizzi campagne – certo discutibili, ma indubbiamente pacifiche e legittime - come quella del BDS - e, insieme a molta parte dei media, continui a diffamare come antisemita chiunque critichi le politiche repressive e di apartheid dei governi israeliani.
Non siamo certo noi, non sono i pacifisti, non è il movimento a sostegno dei diritti dei Palestinesi a negare l’olocausto e la Shoah, a cessare di combattere il nazismo e il fascismo, a non riconoscere le responsabilità del regime di Mussolini e delle leggi razziali, a contestare l’autorevolezza della storia personale e delle persecuzioni subite incarnata dalla senatrice Liliana Segre, cui la maggioranza leghista del comune di Verona è arrivata a fare il vergognoso affronto di assegnare la cittadinanza onoraria mentre intitolava una via al fascista repubblichino Almirante!
Ieri abbiamo partecipato come ogni anno, come sempre, alla Giornata della Memoria e vogliamo impedire che la nostra Costituzione nata dalla Resistenza sia infangata da chi strumentalizza cinicamente l’immane tragedia dell’olocausto e vorrebbe assimilare vittime e carnefici, sdoganando a scopi razzisti e xenofobi il neofascismo nostrano.
Le guerre continue e interminabili calpestano i diritti dei popoli e rafforzano gli stessi regimi che pretendono di combattere con ogni mezzo, anche al di fuori del diritto internazionale e indebolendo le istituzioni multilaterali come le Nazioni Unite.
Il Medio Oriente e il Nord Africa sono stati attraversati nell’ultimo anno da grandi movimenti di massa che rivendicano pace, democrazia, libertà diritti sociali, e che in diversi paesi hanno messo in discussione le stesse divisioni settarie e religiose. Dall’Algeria all’Egitto, dal Sudan al Libano, dall’Iraq all’Iran, alle grandi mobilitazioni ovunque i regimi hanno risposto con sanguinose repressioni, che hanno causato centinaia di morti e incarcerazioni di massa tra i manifestanti. Mobilitazioni che chiedono che i cittadini possano decidere, partecipare, organizzare la loro vita sociale e politica liberi dalla presenza straniera, quale essa sia, e che vogliono finalmente poter costruire economie, società, diritti civili e sociali liberate dalla corruzione, il militarismo, le fobie securitarie delle economie di guerra cui sono costretti.
Di questo e di quanto possiamo e dobbiamo fare per sostenere la società civile di quei paesi ci parleranno senz’altro i nostri amici delle ong.
E l’Europa e il nostro paese, in tutto questo?
Priva di una dimensione politica, strutturata attorno alla sola dimensione monetaria, impastoiata nelle continue mediazioni tra i diversi governi, l’Unione europea è incapace di una politica estera comune. Si “nasconde” dietro l’ombrello della Nato e – anche se Germania e Francia si muovono autonomamente – non si smarca mai sostanzialmente dalla subordinazione agli interessi statunitensi. Nei giorni scorsi, i paesi europei firmatari dell’accordo con l’Iran sul controllo del nucleare, hanno subito ancora la posizione statunitense – Trump, appena divenuto presidente, si era ritirato dall’accordo e ha imposto dure sanzioni all’Iran e a tutti i paesi, europei inclusi, che continuano a commerciare con esso – e hanno denunciato a loro volta presunte violazioni da parte iraniana, mai prima manifestate e non suffragate dal monitoraggio dell’Aiea.
Tra tante divisioni, in Europa un solo punto sembra unificare tutti: è la guerra mai dichiarata, ma quanto mai attiva ed efficace, a profughi e migranti! Una guerra che ha prodotto e produce un’ecatombe nel Mar Mediterraneo, anche questa, ammantata da nobili parole di declamazione dei valori fondanti, basati sul rispetto dei diritti umani.
L’Unione europea ha appaltato alla Turchia – al modico prezzo di 6 miliardi di euro – il controllo delle sue frontiere sud orientali, come l’Italia ha appaltato al governo di Serraj il controllo della sua frontiera mediterranea, ben sapendo in quali condizioni profughi, richiedenti asilo, migranti sono trattenuti in veri e propri lager.
E voltandosi cinicamente dall’altra parte di fronte ai morti in mare, alle violenze di ogni genere nei campi di detenzione, alla disperazione delle persone che scappano da guerre, fame, carestie, disastri climatici e sopravvivono a stento in campi come quello di Moria nell’isola di Lesbo o nei boschi di Bihac tra la Bosnia e la Croazia.
Ancor oggi, con la conferenza di Berlino, si discute il ritorno in mare della missione Sophia non con compiti di ricerca e salvataggio, ma ancora contro i “trafficanti di esseri umani” e per controllare l’embargo di armi alla Libia.
L’Italia, dunque. L’Italia è pienamente coinvolta in tutte queste guerre.
Molti governi, di diverso colore, facendosi scudo di presunti obblighi internazionali e della fedeltà al patto atlantico, hanno disatteso più volte il dettato Costituzionale. L’art. 11 della Costituzione – come peraltro l’art. 10 – sono tra i più vilipesi, a partire almeno dal 1990, se non prima con l’accettazione degli obblighi ai dettami Nato.
Siamo coinvolti per le truppe presenti in scenari di guerra: dai ca 1.100 uomini in Iraq nella coalizione a guida statunitense che dal 2003 occupa il paese, agli 800 della missione Nato in Afghanistan, ai 130 in una missione Nato in Turchia (in via di rientro). Altri 429 militari italiani sono poi impegnati in Libia, 400 nella missione bilaterale di assistenza e supporto, 25 nell’addestramento della guardia costiera libica.
In Niger sono presenti 290 militari italiani, impegnati nella missione bilaterale di supporto, per contrastare i traffici illeciti e le minacce alla sicurezza, cioè per fermare i migranti.
Ma in totale, nel 2019, l’Italia ha impiegato fino a un massimo di 7.343 militari in 45 missioni all’estero.
Siamo coinvolti per le basi Usa e Nato, dove non solo sono custodite testate nucleari, ma è costante il supporto logistico e del sistema di direzione e telecomunicazioni alle azioni di guerra. Sono distribuite un po’ in tutta Italia.
Quelle di maggiore valenza strategica sono a Vicenza, la caserma Ederle, a Napoli, il comando della VI Flotta, a Sigonella aeroporto a disposizione dei velivoli della flotta americana, a Niscemi, base radio e telecomunicazioni per tutto il Mediterraneo e il Medio Oriente, a Camp Darby, tra Pisa e Livorno, il più importante deposito di bombe e munizioni per le forze armate Usa fuori dagli Stati Uniti, a Gaeta, il cui porto ospita la nave ammiraglia della VI Flotta, a Ghedi (BS) e Longare (VI) depositi di armi nucleari, ad Aviano (PN) la più grande base area americana del Mediterraneo. Solo per citare le più importanti.
Siamo coinvolti per la produzione e l’esportazione di armamenti, nonostante l’importante e buona legge 185 del 1990 (e permettetemi qui di ricordare uno dei principali protagonisti della sua conquista: il compagno padre Eugenio Melandri, recentemente scomparso).
Se nel 2018 è quasi dimezzato il valore delle autorizzazioni all’esportazione, sceso a poco più di 5,2 miliardi di euro dagli oltre 10 del 2017, si tratta di un calo fisiologico dovuto ai consistenti ordinativi di armamenti degli anni scorsi: oltre 32 miliardi di euro nel triennio 2015-17, in gran parte per sistemi militari complessi (aerei, elicotteri, navi, ecc.).
Tra i maggiori acquirenti figurano anche nel 2018 i paesi dell’Africa Settentrionale e del Medio Oriente: il 48% delle autorizzazioni all’esportazione. Una quota più che doppia dei poco più di 1,1 miliardi di euro di autorizzazioni rilasciate ai paesi dell’Ue e della Nato (il 23%).
Ancor più preoccupanti sono i paesi destinatari degli armamenti. Si tratta di Qatar (1,9 miliardi di euro, soprattutto per l’acquisto di 12 elicotteri NH-90), Pakistan (682 milioni), Turchia (362 milioni), Emirati Arabi Uniti (220 milioni).
All’Egitto sono state autorizzate sei nuove esportazioni di sistemi militari del valore di oltre 69 milioni di euro. Il Paese del generale Al-Sisi è il terzo acquirente di armamenti italiani tra gli Stati non Ue o Nato. Non solo: sulla base di licenze rilasciate negli anni scorsi, nel 2018 sono state effettuate ben 61 esportazioni di sistemi militari verso il Cairo del valore complessivo di più di 31 milioni di euro. Dunque armiamo fino ai denti un paese coinvolto nella guerra di Libia a fianco del generale Haftar, colpevole di una feroce repressione interna e con il quale dobbiamo invece interrompere le relazioni diplomatiche per le torture e il barbaro assassinio di Giulio Regeni, quattro anni orsono, senza che nemmeno le autorità egiziane collaborino minimamente per stabilire verità e giustizia.
Continuano le esportazioni di armamenti verso l’Arabia Saudita (nel 2018 oltre 108 milioni di euro). Tra queste, tre forniture per oltre 42 milioni di euro attribuibili alle bombe aeree della classe MK80 prodotte dalla Rwm Italia - un’autorizzazione rilasciata nel 2016 dal governo Renzi per la fornitura di 19.675 bombe aeree del valore di oltre 411 milioni di euro. Si tratta delle micidiali bombe aeree prodotte a Domusnovas in Sardegna dall’azienda tedesca Rwm Italia, utilizzate dall’aeronautica militare saudita per bombardare indiscriminatamente lo Yemen, come documentato da diversi rapporti dell’Onu.
Abbiamo rimarcato anche nella nostra locandina che la Cgil è fedele interprete della Costituzione e soggetto attivo del movimento della Pace.
È una posizione storica, connaturata al movimento operaio e sindacale fin dalle origini: se vogliamo lo slogan sempre attuale “proletari di tutto il mondo unitevi” contiene già in sé il ripudio della guerra, immane carneficina che ha sempre sacrificato lavoratori e povera gente agli interessi dei vari capitalismi nazionali.
La Cgil – superato lo sciagurato scivolone del 1999 della guerra come “contingente” necessità” – ha continuato a innervare la mobilitazione dei movimenti sociali e pacifisti, dal Forum sociale europeo di Firenze del 2002, alle grandi mobilitazioni contro la guerra in Afghanistan e in Iraq culminate nella mobilitazione mondiale e nella enorme manifestazione nazionale a Roma del 15 febbraio 2003.
Ma decine sono gli appuntamenti e le mobilitazioni, nazionali e locali, che ci hanno visto tra i protagonisti, a partire dalle Marce Perugia-Assisi alla attiva partecipazione alla promozione della Rete della Pace, alle attività di solidarietà e cooperazione con i sindacati e le associazioni democratiche dei paesi in conflitto.
Non dobbiamo inventare niente di nuovo, se non cercare di dare maggiore continuità e capillarità all’iniziativa e affrontare con grande forza le nostre stesse contraddizioni, a partire dalla questione della riconversione dell’industria bellica, per togliere tutte le lavoratrici e i lavoratori dall’orrendo ricatto tra posto di lavoro e complicità con la macchina della guerra.
Riunificare i movimenti di lotta è un altro compito fondamentale. Ho cercato di dire come le guerre siano quasi intrinseche ad un modello di sviluppo energivoro e basato sullo sfruttamento indiscriminato dell’ambiente: pacifisti e ambientalisti hanno di fronte una battaglia comune!
Così come non c’è pace senza giustizia sociale. C’entrerà qualcosa con le guerre il fatto – come ci ha recentemente ricordato Oxfam – che 22 miliardari posseggano più ricchezza di 4,6 miliardi di persone, il 60% della popolazione mondiale?!
Anche in Italia reddito e ricchezza si concentrano sempre più, ma allo stesso tempo noi del “primo mondo” continuiamo ad espropriare le risorse dei nostri vicini dell’Africa e del Medio Oriente, chiudendogli inoltre le porte in faccia, mentre pretendiamo e garantiamo libera circolazione di merci e capitali.
Dobbiamo provare ad essere più realisti e quindi più radicali. La spesa militare continua ad aumentare, mentre si riduce sempre più quella sociale. Ma è così eversivo chiedere la fine del programma di acquisto degli F35 e dirottare le risorse alle politiche sociali?
Siamo condannati a vita – e perché – a stare e finanziare un’alleanza militare sempre più aggressiva come la Nato? Quando, per di più, l’amministrazione Trump pretende dagli “alleati” un ulteriore aumento delle spese militari e un sempre maggiore dispiegamento di soldati all’estero? Non è possibile finalmente muoversi verso un diverso sistema di difesa europeo?
Quest’anno saremo di nuovo in marcia tra Perugia e Assisi, ma forse avremmo anche bisogno di osare di più, di provare a chiamare ancora una volta il popolo della pace, della non violenza, dell’accoglienza e della solidarietà, della difesa del pianeta, quel popolo che quotidianamente difende e applica i valori della Costituzione, ad una grande manifestazione nazionale per la pace e contro ogni guerra.
Non spetta a noi promuoverla, ma sommessamente la suggeriamo.
E certamente, se sarà convocata, ci saremo!