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L’Ilva di Taranto: No ai ricatti. Un ambiente da risanare, una fabbrica da difendere

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Giacinto Botti e Maurizio Brotini, Direttivo Nazionale CGIL

Un’altra multinazionale, l’Arcelor Mittal, disattende gli accordi firmati sul ex Ilva, rischiando di assestare un colpo durissimo alla nostra economia. L’alibi secondo alcuni glielo avrebbe fornito il Governo con la scelta dello stop allo scudo penale, ma alla base c’è la protervia di un capitalismo rapace che, nel mercato globale e nelle guerre commerciali, tra dazi e protezionismi, si sposta alla ricerca del profitto a tutti costi, senza nessun controllo politico e nessuna responsabilità sociale ed etica.  Ma il problema di fondo - al netto delle irresponsabili schermaglie tattiche delle varie forze politiche - non è il cosiddetto scudo penale ma la scelta dell’azienda di acquisire l’Ilva per impadronirsi di quote di mercato avendo già in testa di ridimensionare il sito produttivo: inaccettabili e provocatorie le richieste di immunità assoluta e il licenziamento di 5.000 lavoratori e il trasferimento di altri 11.000 avanzate in queste ore come condizioni per restare. In questo il Governo e le forze politiche devono tenere una posizione netta, come annunciato dal Presidente del Consiglio Conte: no al ricatto padronale. E bene fanno i metalmeccanici della Cgil, le categorie dei meccanici, a manifestare e scioperare contro l’arroganza del padrone e la difesa del sito produttivo e dell’occupazione. Bisogna tornare a una lettura marxista moderna per capire le tendenze del capitale ad accentrarsi nella fase di interdipendenza tra le economie e di globalizzazione del sistema, e il nesso tra multinazionali e Stati. È necessario, con radicalità e intelligenza, ri-politicizzare l’antica dialettica tra capitale e lavoro dentro la quale si rinnova il moderno scontro di classe.

L’Ilva è il simbolo del Novecento industriale italiano: un’azienda di qualità nata in pieno boom economico e svenduta dallo Stato alla famiglia Riva, che ne ha tratto ingenti profitti e che, senza scrupoli e con la complicità di governi, amministratori e di una politica corrotta, insipiente e succube delle logiche del mercato, l’ha trasformata in una “fabbrica illegale”, responsabile, come sostiene la magistratura, del disastro sociale e ambientale e delle tante morti di cittadini e di lavoratori che hanno subito l’inferno di uno sfruttamento feroce.  Se vogliamo avere memoria storica e pensiero lungo bisogna tornare criticamente alla nefasta stagione italiana delle privatizzazione e dello smantellamento dell’industria pubblica degli anni Novanta, che ha privato il nostro Paese degli strumenti per attuare una effettiva politica industriale senza essere ostaggio di gruppi multinazionali. Un Paese manifatturiero come l’Italia deve avere il controllo del ciclo integrato dell’acciaio, e la siderurgia con la produzione di acciaio primario è una esigenza fondamentale per un paese industriale. Tutto questo non si fa senza ruolo, presenza o proprietà pubblica nei settori strategici

Con l’Ilva riemerge ed esplode la dirompente contrapposizione tra ambiente e occupazione, tra diritto alla vita e diritto al lavoro, tra la città e la fabbrica,  in un area come il mezzogiorno con     gravi problemi occupazionali e di mancato sviluppo. Una contrapposizione che ne cela un’altra, quella tra profitti derivanti da logiche finanziare e di acquisizioni per spartirsi quote di mercato eliminando gli altri soggetti operanti a livello mondiale riducendo il lavoro produttivo. In questa doppia contraddizione e conflitto ci perdono sempre sia i lavoratori che i cittadini, giocati a seconda delle esigenze e dei tempi gli uni contro gli altri. Occorre ricostruire una nuova alleanza per la qualità dell’ambiente e del lavoro a partire dalle condizioni di lavoro, richiedendo a gran voce strumenti di continuità del reddito a fronte dei necessari interventi di riconversione ecologica delle produzioni. Un ammortizzatore sociale finanziato da una tassazione patrimoniale sulla rendita e su chi ha inquinato impunemente devastando la vita di intere comunità e generazioni

La Cgil può e deve avere un ruolo di cerniera contrastando, nel suo agire contrattuale  e sociale, lo scambio perverso tra salario e salute, tra occupazione e ambiente. Deve indicare risposte credibili sia al lavoratore che vuole difendere la fabbrica che gli dà da vivere, che al cittadino che vuole chiuderla per salvaguardare il territorio, la città e la salute di tutti. E la risposta che ricompone gli interessi sta nel risanamento del territorio e nel salvataggio dell’azienda, e nel nodo delle privatizzazioni che vanno fermate, quando si tratta di beni pubblici e di asset strategici, anche con la nazionalizzazione. Senza un nuovo e rinnovato intervento e proprietà pubblica nell’economia non se ne esce, bisogna ribadirlo con forza. L’Ilva apre contraddizioni e ci ripropone anche la sfida epocale di come contribuire, nel poco tempo rimasto, a salvare il pianeta e il futuro, come hanno chiesto al mondo, e anche alla Cgil, Greta e i giovani del suo movimento. La sfida della trasformazione ecologica, della riconversione produttiva, di un nuovo modello di sviluppo ecosostenibile di produzione e di consumo riguarda tutta la sinistra e potrebbe essere problematica per noi e per chi rappresentiamo. Ci sarà bisogno di coraggio, di scelte chiare, di una vera svolta nelle politiche industriali, negli investimenti e nella gestione della cosa pubblica, ma anche nella cultura e nel modo di essere e di consumare di ognuno. La CGIL da tempo, con le proposte strategiche, dal Piano del Lavoro alla Carta dei Diritti, indica una strada possibile. Si tratta ora di percorrerla con coerenza e determinazione.

7 novembre 2019

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