La Costituzione repubblicana, nata dalla lotta partigiana contro il nazifascismo, conserva intatta la sua forza e dà senso alla nostra militanza in CGIL. Il sindacato non è solo un soggetto politico di rappresentanza sociale, ma un’organizzazione di massa con radici storiche, un presidio di valori, principi etici e cultura solidale. Siamo orgogliosamente parte integrante di una CGIL democratica e antifascista, capace di dire e fare cose di sinistra, parlare alla sua gente, senza essere populista. In grado di difendere gli interessi del mondo del lavoro, la sua rappresentanza, senza scadere nel corporativismo o nell’aziendalismo.
Per noi la CGIL del futuro dovrà essere sempre più confederale, inclusiva, militante, capace di rappresentare il mondo del lavoro di ieri e quello di oggi. Un collettivo di donne e uomini, che vive di partecipazione e contrattazione, rivendica la ricchezza dei suoi valori, la sua storia e le sue radici, che fa tesoro del suo pluralismo e del confronto aperto e leale.
Il Congresso Nazionale di Bari si è chiuso positivamente, con l’elezione di Maurizio Landini a Segretario generale. È stata confermata la linea strategica degli ultimi anni, resta in piedi la prospettiva di una CGIL che si pone come soggetto autonomo, non condizionato dal quadro politico, con l’obiettivo strategico della riunificazione del mondo del lavoro, per ottenere una maggior rappresentatività. Insomma, come CGIL, abbiamo nelle proposte congressuali “ordinarie”, strategiche e ideali un faro che ci guida nel mare in burrasca della crisi economica, sociale e valoriale. Abbiamo la nostra rotta, la nostra idea di Paese, di Europa e di mondo che non ritroviamo nelle strategie politiche dell’attuale governo, ma neppure in quelle dei precedenti, a partire dal penultimo, guidato da Matteo Renzi. Per le lavoratrici, i lavoratori, le pensionate, i pensionati, le iscritte e gli iscritti, ma anche per l’opinione pubblica, il congresso della CGIL è stato un momento alto di elaborazione e di proposta, ha creato grandi aspettative che non devono andare deluse.
Il nostro giudizio sulle scelte del governo è netto: pericolose e divisive, così come conferma l’ultimo decreto legge “recante disposizioni urgenti di ordine e sicurezza pubblica”. Un decreto incostituzionale, tanto sbagliato e inquietante quanto sottovalutato, o peggio, colpevolmente rimosso. Un testo pasticciato, che ripropone, sullo stesso piano, accanimento politico e giudiziario contro i migranti e contro chiunque esprima dissenso politico e sociale, introducendo nei fatti uno stato di polizia. Il decreto di Salvini è perfino peggiore della famigerata Legge Reale, perché colpisce direttamente le forme di lotta e di protesta, dal blocco delle merci, al picchetto, fino al corteo.
Le mobilitazioni sindacali unitarie, confederali e di categoria, sono una prima risposta e indicano la strada da seguire per contrastare le scelte e mettere in luce le mancanze di questo governo. Mentre al momento non si riscontra un analogo sentire da parte di alcun partito politico di opposizione. Tantomeno il Pd che, totalmente assorbito da un estenuante scontro interno, resta prigioniero delle sue contraddizioni e non è ancora riuscito a definire la rotta.
In un quadro politico e istituzionale che sta rapidamente deteriorando, con la scomparsa di partiti di massa in grado di rappresentare il mondo del lavoro e metterlo al centro dei propri programmi, la CGIL rappresenta, volenti o nolenti, l’unica chance per ricreare nella società prima gli anticorpi a sovranismi e populismi, poi le basi ideali di una nuova sinistra del lavoro, per un socialismo del XXI secolo. Il sindacato deve rivendicare la propria autonomia, con proposte e iniziative che gli permettano di non essere vissuto dai lavoratori come elemento di conservazione. O ancor peggio, come foglia di fico dietro cui nascondere chi, in questi ultimi anni, applicando politiche liberiste e monetariste ha fatto pagare la crisi ai lavoratori e alle loro famiglie, peggiorando le condizioni di lavoro, diminuendo reddito e diritti.
La CGIL manifesta contro le politiche di un governo che rifiuta il confronto, che non traduce la contestazione ai trattati e ai vincoli di Maastricht in investimenti per lo sviluppo, non basa la sua politica fiscale sulla lotta all’evasione, sulla patrimoniale per le grandi ricchezze, sulla riduzione delle tasse ai lavoratori. La CGIL chiede una vera riforma previdenziale, che abolisca la Fornero, rispettando il principio di perequazione delle pensioni. Non protesta contro quota 100, che era una misura necessaria. La CGIL contesta il governo non per il reddito di cittadinanza, ma perché non mette in campo una riforma degli ammortizzatori sociali, che ripristini ed estenda la cassa integrazione e introduca un reddito di sostegno. Lottiamo perché vogliamo una legge che estenda a tutti i contratti collettivi di lavoro, mentre il salario minimo è una misura fuorviante che non tiene conto delle condizioni di lavoro e dei diritti dei lavoratori, che invece un contratto definisce.
Il quadro elettorale-politico italiano è stato terremotato. Con il voto delle elezioni europee dello scorso maggio, si sono di fatto invertiti i rapporti di forza nel governo. Sempre più spazio alla Lega di Salvini, nazionalista, autoritaria e xenofoba, con i Cinque stelle completamente succubi dell’alleato e dunque corresponsabili della deriva autoritaria e populista del Paese. La parte peggiore dell’Italia, la zona grigia di cui parlava Primo Levi, quella degli interessi particolari, del potere finanziario, del padronato più retrivo, della borghesia conservatrice, quella degli evasori, degli indifferenti e dei qualunquisti, ha preso - elettoralmente parlando - il sopravvento sull’altra Italia, quella generosa, solidale e antifascista. Salvini è l’uomo solo e forte al comando. Un politico pericoloso, sottovalutato, un reazionario che parla alla pancia delle persone, e fa leva sulle loro paure per spingerle alla ricerca di un nemico. Come la storia insegna, anche se troppo spesso dimenticata, i reazionari si presentano camuffati da populisti, nemici del potere, amici del popolo, si alimentano del diffuso malcontento sociale, sfruttano le diseguaglianze per scatenare la guerra tra poveri.
Il Paese sta andando alla deriva, ripiegato su se stesso, in arretramento a causa di limiti e guasti annosi, preda di una corruzione dilagante che ha collusioni con la politica, fra piccoli interessi particolari, indifferenza e qualunquismo di troppi. L’Italia di oggi, povera, ingiusta, individualista e cinica, non nasce con Salvini e Di Maio. Ma il loro governo è comunque pericoloso, inquietante, responsabile della deriva culturale e delle gravi scelte classiste sul piano economico, sociale, politico, ed ha ancora un preoccupante consenso traversale nelle periferie, tra gli operai, i pensionati, i giovani e le classi meno abbienti.
Guardiamo con preoccupazione al consenso che arriva dai luoghi di lavoro e tra i pensionati. Questo non ci lascia indifferenti, anzi ci interroga sulla nostra capacità di tenere insieme la battaglia economica, sociale e sindacale con quella più generale e impegnativa sui valori e sulla cultura. Bisogna riscoprire nella sua interezza, nei luoghi di lavoro e nella società, la nostra Costituzione repubblicana.
Quei voti al governo interrogano anche e soprattutto i partiti, quelli democratici e quelli di sinistra, sulla loro identità, la loro rappresentanza sociale, il loro ruolo nello scenario politico, italiano ed europeo.
In gioco c’è anche l’esistenza di una possibile forza politica di massa di sinistra, che metta al centro del suo programma il lavoro e i diritti universali per tutte e per tutti. Una forza politica della quale sentiamo la mancanza, ben consapevoli della nostra parzialità e non autosufficienza.
Quando la crisi è così profonda, strutturale e di sistema, non c’è spazio per posizioni moderate, indeterminate, incerte. Se vogliamo sconfiggere l’estremismo di Salvini dobbiamo recuperare chi ha abbandonato la sinistra votando Movimento Cinque Stelle e Lega. Anche chi, non trovando un’offerta politica adeguata, si è rifugiato nell’astensionismo. C’è bisogno di radicalità per affrontare le emergenze reali del Paese, per offrire un’alternativa con idee e proposte chiare. Facendo una decisa scelta di campo, senza fughe in avanti o sguardi rivolti al passato.
La CGIL del NOI, non dell’uomo solo al comando, è e deve restare autonoma dal governo e dai partiti. Per sua natura e storia, non può essere certo neutrale o indifferente agli esiti politici e istituzionali. L’autonomia non è separatezza, la CGIL incoraggia la partecipazione attiva e consapevole alla vita politica e amministrativa del Paese. Le nostre iscritte e i nostri iscritti possono contribuire individualmente, forti dell’esperienza e della cultura del lavoro, alla rinascita di una sinistra politica radicale di massa, capace di fare egemonia e riconquistare il consenso perduto. In questo contesto sarebbe opportuno limitare le incompatibilità ai componenti degli esecutivi, ai funzionari, ai dipendenti dell’apparato politico e ai lavoratori in legge 300 e in distacco, consentendo la candidatura alle elezioni di qualsiasi ordine e grado ai componenti dei Direttivi e delle assemblee generali, purché in produzione.
La CGIL è organizzazione di rappresentanza dei lavoratori attivi, dei pensionati e dei disoccupati. Un corpo sociale intermedio, radicato nella società, presente nei luoghi di lavoro e sul territorio con una rete capillare di delegate e delegati, di quadri, di attiviste/i, di leghe dei pensionati, di sedi, sportelli e servizi. Nella sua natura di classe sta la ragione della vitalità di questa grande forza organizzata, anche se nulla è di per sé scontato, o destinato ad esistere a prescindere. Dalle scelte che la CGIL fa e farà dipende il nostro futuro e quello della classe lavoratrice nel nostro Paese.
La scelta della CGIL di proseguire sulla linea che ci ha portato all’elaborazione della Carta dei diritti, e alla decisione di rivolgersi all’insieme del mondo del lavoro in tutte le sue articolazioni - da quelle degli insediamenti industriali, dei servizi, dell’istruzione, dell’agricoltura, ai lavoratori precari senza diritti e senza contratto, ai nuovi schiavi vittime del caporalato, ai mestieri legati all’industria 4.0, alle nuove figure professionali prodotto dell’innovazione digitale - è stata confermata con un consenso plebiscitario al documento congressuale “Il lavoro è”.
La CGIL riconferma la centralità del lavoro nelle sue infinite articolazioni, mettendo al primo posto i diritti e i bisogni degli uomini e delle donne che lavorano, che cercano lavoro, di chi è in pensione. A questo va accompagnata una nuova consapevolezza sulle tematiche ambientali, per un modello di sviluppo ecocompatibile entro il quale ricondurre la riflessione e la difesa del settore manifatturiero del nostro Paese. Un modello su cui impostare le politiche rivendicative di settore in materia di infrastrutture, edilizia abitativa, trasporti. Con l’obiettivo di porre fine alla spoliazione del territorio e delle sue risorse, fornire di nuove strutture il Paese, partendo dal trasporto pubblico su rotaia per la mobilità dei cittadini, privilegiando il recupero in campo edilizio, la manutenzione del territorio, per prevenire e arginare le conseguenze dei mutamenti climatici e dei terremoti. Senza nasconderci che a questa consapevolezza non corrisponde ancora una pratica contrattuale coerente, a tutti i livelli, capace di portare a vera sintesi le contraddizioni che esplodono tra difesa e riqualificazione dei posti di lavoro e tutela e rigenerazione dell’ambiente e della salute. Come ancora sussiste, per responsabilità dell’impresa, della politica e delle istituzioni, e anche per le nostre contraddizioni, una fuorviante contrapposizione tra il diritto alla salute e il diritto al lavoro.
La centralità del lavoro, delle lavoratrici e dei lavoratori ha creato le condizioni necessarie affinché la CGIL portasse avanti con determinazione la battaglia per la difesa della Costituzione. Una battaglia civile che ci ha portato a contrastare, e contribuire a sconfiggere, il referendum costituzionale “manomissivo”. Mentre oggi dobbiamo mettere in campo un’iniziativa mobilitante e persuasiva, capace di contrastare la secessione dei ricchi camuffata da autonomia differenziata, la deriva xenofoba, e razzista, le pulsioni autoritarie e reazionarie che hanno fatto breccia tra i lavoratori, i pensionati, i disoccupati di ogni generazione, in testa quelli più anziani.
Se perdessimo la capacità di mettere al centro le condizioni materiali di chi lavora, perderemmo il diritto di parola. Siamo l’unica forza sociale in campo che contrasta le politiche liberiste e monetariste della Commissione europea, del Fondo monetario internazionale, della Banca mondiale e della Bce, non in nome dell’egoismo delle piccole patrie, ma in nome di un’Europa sociale. Siamo l’unica forza che chiede il superamento dei parametri imposti dal Trattato di Maastricht, nel segno di una politica di sviluppo e di espansione. Non contro qualcuno ma per qualcosa: garantire il lavoro, affermare i diritti sociali e di cittadinanza, a partire dal salario e dalle condizioni di lavoro, riconoscendone la fatica con un sistema pubblico, flessibile e volontario di pensionamento, che sia in grado di distinguere le differenze tra le diverse mansioni e la differenza di genere. E ancora, assicurare un reddito agli inoccupati e ai disoccupati, attraverso gli ammortizzatori sociali, con una politica fiscale nella quale chi più possiede più paga. Un sistema fiscale equo e solidale ricostruisce le condizioni di uno stato sociale universalistico. Con la scelta di campo del 2002 di adesione al Forum Sociale Europeo di Firenze, rappresentiamo la forza che con più determinazione - anche in modo autocritico rispetto al passato - riconosce nei valori costituzionali di ripudio della guerra la cartina di tornasole di qualsiasi valutazione sulle vicende internazionali. Per parlare al mondo del lavoro nelle sue antiche e nuove articolazioni, la CGIL ha bisogno ancor di più di confederalità.
La confederalità è nel nostro DNA. La CGIL è nata, agli inizi del XX secolo, come grande confederazione unitaria che raggruppava allora i lavoratori dei campi e delle officine, gli uomini tornati dalla guerra, le donne che venivano rimandate a casa, dopo la parentesi bellica nella quale avevano sostituito nelle fabbriche e nei campi gli uomini mandati a morire in guerra.
E’ stata al centro della lotta per la ricostruzione dopo i disastri della guerra fascista, e protagonista delle grandi lotte degli anni ‘60 e ‘70 che hanno portato, con lo Statuto dei Lavoratori, la Costituzione nei luoghi di lavoro, la riforma delle pensioni, la riforma della scuola dell’obbligo, le 150 ore, la riforma sanitaria, la legge sull’equo canone, e, sul piano dei diritti civili, il divorzio e l’interruzione di gravidanza. Il nostro sindacato è stato in prima fila, mobilitando milioni di uomini e di donne. E cambiando anche la propria fisionomia, da sindacato della manodopera specializzata e istruita a sindacato dei braccianti e dei contadini, a sindacato industriale e della logistica negli anni del boom industriale, dell’autunno caldo e della lotta per le riforme, a sindacato dei lavoratori dei servizi e della pubblica amministrazione, negli anni della crisi, della stagnazione e della trasformazione del mercato interno e degli assetti produttivi, che si protrae tra alti e bassi ormai da oltre 20 anni. Senza perdere la rappresentanza dei lavoratori dei campi e dell’industria, ma affiancando ad essa quella dei lavoratori del commercio, della ristorazione, dei servizi alla persona, della pubblica amministrazione, della formazione, della sanità.
La sfida ora è quella di rappresentare anche i nuovi settori e di organizzarli in una lotta comune, di unità del mondo del lavoro. Questo è l’impianto della Carta dei diritti! La contrattazione inclusiva, di categoria e intercategoriale, di azienda e di filiera, territoriale e sociale, è la chiave di volta di questa politica. Richiede una sinergia tra confederazione e categorie; richiede un’unica linea contrattuale e un rapporto diretto alla base tra i lavoratori coinvolti e da coinvolgere se vogliamo superare diffidenze, egoismi, resistenze. Richiede un sindacato che sposti risorse nelle periferie, che torni con i militanti, i funzionari nei territori e nei luoghi di lavoro, che valorizzi, formi e riconosca le delegate e i delegati e il volontariato, che esca dagli uffici - dove operano con assiduità e professionalità gli addetti ai servizi - per andare nei luoghi di lavoro, nei paesi dove si reclutano i braccianti e i manovali. E che quando fa le permanenze sia disponibile all’ascolto di ogni singola persona che si presenti nelle nostre sedi, frequenti i siti informatici dove si reclutano facchini, fattorini, addetti alle pulizie, sia presente nelle periferie del degrado sociale, dove, in alternativa alla guerra tra i poveri e contro gli ultimi, a partire dai migranti, è necessario ricostruire una vertenzialità sociale su casa, ambiente, trasporto, sanità, vivibilità complessiva dei quartieri. Lo abbiamo chiamato sindacato di strada.
Il cambiamento è una lunga e tortuosa strada, piena di possibili inciampi e di sconfitte, ma una strada obbligata per chi non si rassegna dinanzi all’imbarbarimento e alla distruzione civile e morale della società. Gli anticorpi esistono, li abbiamo visti e sentiti nelle tante manifestazioni e iniziative per il lavoro, per i diritti, per la difesa di conquiste storiche delle donne, per la democrazia, a partire da quella di Roma, di Milano e di Verona,
C’è una parte del Paese, la migliore, a cui rivolgersi, una risorsa vitale cui vanno dati voce, riconoscimento e rappresentanza. Nessun partito di sinistra può fare a meno di quelle persone che hanno riempito le piazze e sono parte attiva sui territori, sono parte non indistinta del “popolo”.
Il protagonismo delle nuove generazioni a favore dello sviluppo sostenibile, contro l’attuale modello di sviluppo, di produzione e di consumo, contro la distruzione lenta e inesorabile del pianeta chiama noi tutti a una profonda verifica sulle nostre scelte, ci interroga rispetto a opere che fanno parte di un vecchio modello di sviluppo e di produzione, come la Tav, il Tap, o di grandi opere incompatibili e di poca utilità sociale ma redditizie per multinazionali o i grandi gruppi.
C’è un allarme serio presente in un rapporto di 250 scienziati di 70 Paesi, presentato all’assemblea ONU per l’ambiente. C’è il monito pressante, rimosso per interessi, pigrizia o irresponsabilità, lanciato dalle Nazioni unite per limitare gli effetti catastrofici del cambiamento climatico. La distruzione ambientale riguarda tutti i Paesi ma in quelli più sfruttati, meno sviluppati e meno ricchi si traduce anche in forti immigrazioni. Ricostruire un nuovo assetto geopolitico mondiale nel quale le “super nazioni”, l’Europa nuova, si pongano come primo obiettivo di salvare se stessi e il pianeta, non la spartizione del potere, occupare nazioni e sfruttare popoli e risorse.
Abbiamo bisogno per questo di un sindacato generale, di un sindacato che faccia battaglia politica per costruire il futuro, per affermare tra le lavoratrici e i lavoratori i propri valori: solidarietà, fraternità, multiculturalità, differenza di genere, internazionalismo, antifascismo. Un sindacato che non volti lo sguardo dall’altra parte per opportunismo, fingendo di non vedere la realtà, o che rifiuti il confronto dialettico con aristocratico distacco, rifugiandosi nel sogno di un “partito amico” e, in futuro, di un “governo amico”.
Un sindacato che si ponga altresì il tema della mancata o inefficace rappresentanza politica del lavoro, partendo dalla consapevolezza che in prospettiva non c’è sindacato confederale di massa senza un partito dei lavoratori e della trasformazione sociale, radicato nel Paese. Così come non ci può essere un partito dei lavoratori senza un grande sindacato confederale, in un legame dialettico fecondo. La costruzione di una sinistra, di un partito del lavoro è un processo lungo e complesso e la CGIL, con autonomia e senza subalternità, o il ripristino di vecchie e distruttive cinghie di trasmissione, saprà esercitare il suo ruolo e la sua funzione di rappresentanza sociale del lavoro. Un sindacato che pratichi la coerenza tra quello che si decide nei congressi confederali e quel che si fa nelle categorie e nei territori. Ci sono troppe resistenze, titubanze, contraddizioni nel far vivere la tesi della necessità di un nuovo e rinnovato intervento pubblico in economia. Partendo anche dalla riconquista della proprietà pubblica di settori privati strategici, delle reti e dei servizi pubblici locali, rispetto ai quali - a partire dall’acqua - sia la gestione che la proprietà devono tornare ad essere pubbliche.
Rinnovare in Cgil non è rottamare: significa prima di tutto valorizzare e far incontrare le generazioni, consapevoli che una nuova leva di delegate e delegati, di volontari va conquistata, formata e aiutata nella dura prova della contrattazione aziendale, categoriale e sociale. Le nuove generazioni in CGIL, come sempre, hanno bisogno di fare nuove esperienze, e quelle vecchie hanno il dovere di trasmettere il proprio sapere, in un reciproco riconoscimento. Perché fare il “sindacalista” non è un lavoro, un impegno come altri, oggi più di ieri bisogna avere passione, esperienza e responsabilità. Il contesto e il periodo storico richiedono di tenere la prua rivolta al mare aperto, non solo per ricomporre ma anche per ricostruire, perché rinchiudendosi nei porti si muore e si perde la sfida del futuro.
La CGIL ha dunque bisogno di una autoriforma. E’ necessaria una conferenza di organizzazione che, a differenza del passato, traduca coerentemente in indicazioni organizzative le acquisizioni strategiche del Congresso, per spingere l’intera organizzazione verso un approccio dinamico del lavoro di massa e del lavoro d’apparato, che ridefinisca le potestà confederali e di categoria, mettendoci in grado di operare con modalità intercategoriale nei posti di lavoro.
Una CGIL che ridisegni i propri profili categoriali per ricomporre le filiere del lavoro e del valore, per dare concretezza alla contrattazione inclusiva e per ricomprendere il nuovo perimetro di rappresentanza, che vede anche il lavoro autonomo economicamente dipendente. Una CGIL che, dinanzi all’ignoranza nei confronti dello straniero - in particolare di chi ha la pelle nera - deve valorizzare il ruolo e la partecipazione delle compagne e dei compagni di origine straniera. Dovrebbe prevedere la presenza multietnica nei suoi gruppi dirigenti, a tutti i livelli, per rispondere sia agli obiettivi di rappresentanza del nuovo mondo del lavoro, che di rappresentazione in senso plurietnico della società. Sarebbe un segnale controcorrente significativo a sostegno della battaglia culturale anche tra le iscritte e gli iscritti, a partire dai luoghi di lavoro, per arginare e sconfiggere la penetrazione di esaltazione identitaria, di opinioni e devianze xenofobe e razziste, per riaffermare il valore della solidarietà e dell’unità del mondo del lavoro, a prescindere dalla loro origine, dalla loro provenienza geografica e dalla loro cultura e dalla religione, per la difesa e l’estensione dei diritti universali, dei diritti sociali di tutte e di tutti.
La CGIL e la nostra esperienza collettiva di sinistra sindacale organizzata
L’esito unitario del Congresso è positivo, ma non cancella divisioni e prospettive divaricanti che si sono evidenziate durante tutto il percorso congressuale - malamente e in maniera improvvida, perché non costituite in chiare, differenti opzioni programmatiche - e che amplificano il problema, che la CGIL ha da tempo, della piena coerenza tra posizioni programmatiche e pratica politica e contrattuale quotidiana. Altri, invece di fare un libero confronto, una battaglia politica aperta sui contenuti, contrapponendosi agli orientamenti della maggioranza dell’organizzazione, hanno preferito costruire una posizione congressuale contro la proposta di Segretario Generale, e una parte pensa ancora di proseguire nella manovra burocratica di piccolo cabotaggio invece di portare avanti con slancio la linea di trasformazione, riforma e radicamento decisa dal Congresso.
Verifichiamo che, fuori dalle modalità tipiche e riconosciute dallo statuto della nostra organizzazione, si perpetuano e si stanno predisponendo cordate, gruppi di potere, istanze interpersonali di incerta natura e sensibilità politica (territorio, categorie, strutture traversali), che non dovrebbero trovare spazio nella CGIL di oggi e del futuro. Siamo per questo convinti che in un’organizzazione di massa, piramidale e burocratica, occorra riconfermare una ridefinita sinistra sindacale, non fatta da “guardiani della linea”, o da grilli parlanti. Ma parte e risorsa dell’organizzazione, che, nella dimensione della maggioranza politica e di governo dell’organizzazione stessa, contribuisca con idee “radicali” e innovative e, soprattutto, con pratiche coerenti a innervare la CGIL del futuro e a sostenere l’attuale linea del Segretario generale.
L’elezione a Segretario generale CGIL del compagno Landini, la cui candidatura abbiamo sostenuto fin dall’inizio in modo leale, senza nascondere anche le divergenze del passato, si è caricata agli occhi di milioni di lavoratrici e di lavoratori, di disoccupati, di pensionati, cittadine e cittadini di ogni generazione, di un valore e una valenza simbolici. C’è una aspettativa che non può essere soffocata dalle pastoie burocratiche, e che richiede una grande iniziativa per un sindacato unitario e plurale, democratico e autonomo rispetto alle forze politiche e ai governi, con la sua idea, il suo progetto di società del futuro, i suoi programmi e le sue piattaforme, i suoi valori di solidarietà, di eguaglianza e di giustizia sociale.
L’unità del mondo del lavoro è una precondizione necessaria per spostare rapporti di forza e raggiungere conquiste. Un sindacato unitario, costruito sul consenso e sulla partecipazione delle iscritte e degli iscritti, dei lavoratori tutti, e che abbia come riferimento la nostra Costituzione repubblicana e chiare regole sulla rappresentanza, la democrazia e il pluralismo interni, la democrazia di mandato da parte dei lavoratori, con regole condivise di validazione di accordi e contratti da parte di tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori. Oggi, è vero, ci sono migliori condizioni, siamo in presenza, dopo anni di divisioni, di una rinnovata unità, di piattaforme confederali unitarie nei confronti del governo, di richieste sociali e contrattuali condivise e di mobilitazioni significative confederali e categoriali, a partire da quella confederale del 9 febbraio a Roma, o quella dei lavoratori dell’agroindustria l’11 maggio scorso. Gli scioperi delle categorie, la manifestazione dei pensionati del 1° giugno, quella del pubblico impiego dell’8 giugno, lo sciopero dei metalmeccanici del 14 giugno testimoniano un nuovo protagonismo e un bisogno di unità. Questo impegno richiede una grande energia, una grande solidarietà e una convinta partecipazione.
Le compagne e i compagni che hanno sottoscritto il contributo alla discussione congressuale “Per una CGIL unita e plurale” ribadiscono la scelta fatta in Congresso di partecipare alla costruzione plurale della linea e dell’azione della confederazione, e alla battaglia politica in CGIL in modo trasparente e leale. Non con l’obiettivo di perpetuare se stessi come area e aggregazione che ha attraversato 35 anni di vita della CGIL, ma di concorrere, navigando in mare aperto, allo sforzo comune per una CGIL ancora più forte, più rappresentativa, più autonoma.
Nella nostra organizzazione rimane aperto il problema, non affrontato nella commissione statutaria, su come costruire i gruppi dirigenti e su come riconoscere, insieme alla capacità e all’esperienza, le rappresentanze plurali, mentre si praticano forme e modalità che si impongono, soverchiando il pluralismo programmatico e delle idee, come è avvenuto in alcune importanti categorie e in alcune realtà confederali regionali e territoriali nella costituzione degli organismi dirigenti.
Noi siamo la Cgil non l’addizione delle strutture, non possiamo permetterci la verticalizzazione e l’accentramento dei ruoli e dei poteri, né la riproposizione in nessuna forma di vecchie e distruttive cinghie di trasmissione tra partito e sindacato. Vorremmo una CGIL nella quale tutti e tutte siano parte del NOI, dove la provenienza dai luoghi di lavoro, l’esperienza, la capacità, la coerenza venissero riconosciute nella costruzione dei gruppi dirigenti. Vorremmo che si affermasse un pluralismo programmatico e delle idee, non apicale e di struttura, in una CGIL nella quale nessuno si senta proprietario di qualcosa o di qualcuno, nella quale non ci sia chi esercita il ruolo di segretario generale in base a una sua idea “personale” di pluralismo, costruendo gli esecutivi su “convenienza”. Vorremmo una CGIL nella quale tra i suoi dirigenti viva la lealtà, il senso di appartenenza e il rispetto degli impegni assunti e dei patti politici realizzati.
La conferenza d’organizzazione dovrebbe imporre una “autoriforma”, pur difficile ma non impossibile, per riaffermare su basi avanzate il carattere democratico della nostra organizzazione, riconoscendo il pluralismo degli apporti e dei contributi, impedendo l’ossificazione burocratica di posizioni che non siano basate sul dibattito e il confronto negli organismi collettivi, i Direttivi, le assemblee e le Segreterie, le aree programmatiche, quando costituite ai sensi dello Statuto, le riunioni pubbliche ai sensi dell’art. 4 dello Statuto. Le riunioni - come è accaduto durante il Congresso - di componenti, di “aree” mai formalizzate ma esistenti di fatto, che si coprono dietro incontri “tra segretari generali” dovrebbero non essere condivise anziché generare, in alternativa, un comportamento analogo da parte di altri. Occorre portare la discussione e il confronto dentro i canali statutari dell’organizzazione, per coinvolgere nel processo di attuazione della linea del Congresso e del processo di riforma innovativa il corpo vivo dell’organizzazione.
Perché, come per la politica, è di chiarezza, radicalità, generosità, coerenza e confederalità, insieme a visione e pensiero lungo che la nostra Organizzazione ha bisogno.
In questa situazione si colloca il nostro confronto sul futuro della sinistra sindacale organizzata.
Noi pensiamo alla CGIL come a un bene comune, da preservare e da rinnovare costantemente. Per questo c’è bisogno di una CGIL sempre più confederale, unita e plurale. Per la CGIL del futuro il miglior anticorpo contro la burocratizzazione e la pigrizia mentale è il pluralismo, riconosciuto e valorizzato su basi culturali e programmatiche. Non siamo per rinchiuderci nella prigione delle identità originarie o delle asfittiche correnti nel e di partito.
Ribadiamo la nostra disponibilità, all’interno del percorso di riaggregazione intrapreso prima del congresso con l’esperienza organizzata della Toscana, a portare alla naturale conclusione l’esperienza collettiva organizzata di Lavoro Società.
Un percorso aperto, finalizzato a concludere una fase della nostra esperienza. Non della nostra storia. Non vogliamo disperdere la ricchezza collettiva di una sinistra sindacale che si è espressa in CGIL attraverso varie fasi e utilizzando le varie forme organizzate alla luce del sole, in aree di minoranza, programmatiche o congressuali.
Confermiamo l’avvio di una fase di confronto a tutti i livelli, a partire dai territori, per giungere a un’assemblea nazionale da costruire sulla base di un documento di merito politico-sindacale, di prospettiva e di identità, per dare gambe a un progetto che ripensi la propria esperienza collettiva di sinistra sindacale organizzata, per mantenere la dialettica interna e contribuire, insieme ad altri, a rinnovare la natura plurale e democratica della CGIL, nell’interesse generale e per la definizione e la costruzione della più rappresentativa e ampia sinistra sindacale confederale.
In questo percorso il periodico “Sinistra Sindacale” dovrà essere sempre più espressione di pluralità e strumento di crescita collettiva, e rimarrà a disposizione del mondo CGIL e di coloro che vogliono arricchirlo con i loro scritti e le loro riflessioni.
Il nostro non è stato solo un percorso organizzativo o di posizionamento, è stato un percorso ideale e valoriale, per continuare a far vivere dentro la CGIL il sindacato classista, confederale, partecipativo e per mettere a valore il marxismo come teoria e prassi dell’agire sindacale, praticando i valori dell’uguaglianza, della lotta contro lo sfruttamento degli esseri umani, contro la barbarie dell’economia capitalistica e dell’imperialismo. La lezione di Marx sulle distorsioni del capitalismo che crea concentrazioni di potere e di ricchezza, produce diseguaglianze e povertà, nuove e intollerabili, è ancora attuale.
In conclusione
La sinistra sindacale che conosciamo, della quale abbiamo fatto e facciamo parte, ha la sua lunga storia di collettivo organizzato all’interno delle regole democratiche dell’organizzazione, con militanti che si sono formati anche in questi anni, con delegate, delegati e dirigenti che si sono sperimentati nella contrattazione, nelle vertenze, nella direzione di strutture. Facciamo parte integrante dell’organizzazione. Individualmente e collettivamente abbiamo dato e vogliamo continuare a dare il nostro contributo di idee, di proposte e di impegno in prima persona, con la lealtà di sempre e il senso di appartenenza che ci sono propri. Rivendichiamo di essere stati e di essere parte di una sinistra sindacale costituita, capace di produrre contributi, documenti, riviste e periodici, di fare iniziative, assemblee pubbliche, mai settaria o chiusa nel proprio recinto. E collocata nella CGIL mai all’opposizione, poche volte in minoranza e quasi sempre nella maggioranza.
Siamo oggi disponibili al confronto aperto per dare vita non ad “una” sinistra sindacale ma “alla” sinistra sindacale, che vada oltre noi e che, nelle forme e nelle modalità che decideremo insieme, concorra a far navigare tutta la CGIL in mare aperto, avendo certo l’approdo comune.
Continuiamo a pensare che il pluralismo programmatico, delle idee e di pensiero sia il collante che rafforza il senso di appartenenza alla CGIL, e che debba continuare a essere la ricchezza e la caratteristica fondante in una organizzazione democratica, complessa e articolata com’è la nostra. Per questo difendiamo il pluralismo che si esprime nel libero confronto e che si possa costituire collettivamente in aree congressuali o programmatiche, come normato dal nostro Statuto. Mentre riteniamo distorcenti e dannose le formazioni di gruppi di potere, di aggregazioni e di articolazioni più burocratiche che su basi programmatiche.
Continueremo a essere un’aggregazione di pensiero, di idee, di valori non per distinguerci ma per contribuire al confronto, al sostegno delle scelte assunte con coerenza e lealtà verso l’organizzazione e il Segretario generale. Manifesteremo ancora liberamente il nostro pensiero, la nostra critica con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione, anche attraverso la concertazione di iniziative liberamente manifestate pure tramite i canali di organizzazione - posizioni collettive di minoranza e di maggioranza, così come previsto nell’articolo 4 dello Statuto.
Una aggregazione tesa al confronto, di formazione e di cultura diffusa, di crescita individuale e collettiva. Un luogo collettivo di un sentire plurale, non luogo di distinzione o di differenza ma di ricchezza e appartenenza alla CGIL. Un collettivo plurale di idee e di pensieri, di proposte e di valori, non alternativo, diverso ma uguale. Siamo per aggiornare e spostare la linea sempre in avanti, contribuire collettivamente a una ricerca, a un avanzamento di analisi sulla realtà, innovative e coerenti con la nostra storia di sindacato generale.
C’è bisogno di un pensiero alto, di scelte radicali che ripropongano ideali, lotta politica e valoriale costante, quotidiana per far andare avanti chi è indietro, senza voce né diritti e possibilità. Per fermare l’onda nera, la violenza neofascista che avanza nel nostro Paese. Per rinsaldare un sentire comune in difesa della collettività, dei beni comuni e della democrazia rappresentativa e parlamentare. Per ricostruire un orizzonte di cambiamento reale, un’utopia del possibile.
Noi siamo con e per la CGIL del futuro.