Mi chiamo Grazia Desario e sono ventiquattro anni che insegno nella scuola dell’infanzia a Barletta, una città di centomila abitanti che potrebbe essere all’avanguardia per i servizi offerti ai cittadini e che invece, per cecità, cattiva volontà e inettitudine politica, rimane indietro di anni.
Nell’ottobre del 1999, quando mi giunse la comunicazione dell’assunzione come maestra, lavoravo in banca. Non ho avuto nessuna esitazione a lasciare la banca per l’insegnamento. “Ho pensato che il capitale umano fosse più importante di quello finanziario”. Iscritta alla Cgil dal primo giorno di lavoro, ho lasciato la Fisac per approdare a quella che oggi è la Flc.
Per fare questo lavoro ci vuole un immenso amore per i bambini. Bambini dai tre ai sei anni che devono essere seguiti costantemente per tutto. Con loro si deve giocare e inventarsi il modo di rendere la giornata sempre nuova e diversa. I bambini devono sporcarsi, avere il contatto con la materia, e su questo ho conformato il mio modo di stare con loro.
In questi anni ho visto il mondo della scuola cambiare velocemente e purtroppo in peggio. Fino a cinque o sei anni fa, le classi venivano formate dai dirigenti che cercavano di “mescolare” la società, ora invece sono i genitori che si scelgono le insegnati a cui affidare i propri pargoli. Il risultato di questa politica di inserimento è stata la formazione di classi con differenze di classe. Le “brave” maestre con infanti delle famiglie importanti e agiate. Le altre, come me, con i figli degli immigrati, che non conoscono la lingua e a cui bisogna dare più attenzione perché chiaramente più fragili. Oppure quelli provenienti da famiglie con problemi (detenuti o tossicodipendenti).
Per me è sempre stato un privilegio lavorare con loro e per loro.
Quando con la nave Vlora a Bari arrivarono migliaia di albanesi, i bambini con i loro genitori furono sparsi per il territorio e inseriti nelle classi senza nessun problema, anzi con vanto degli amministratori di turno, un po’ come è successo con coloro che fuggivano dalla guerra tra Russia e Ucraina. Ma forse erano bianchi e occidentali. Ora arrivano dal Nord Africa e non solo, ma anche e sempre di più dall’Asia, accompagnati da una narrazione negativa di “invasori” e per questo divisi dai figli dei residenti, creando delle classi ghetto dove emarginare i “diversi”.
Quando incontro i genitori di questi bambini diventa un momento di scambio culturale, specie quando le mamme mi dicono che vogliono per i loro figli, specie se femmine, un futuro diverso dal loro, costrette dalla tradizione a essere un passo indietro agli uomini. In quel momento non sono più solo la maestra ma anche la donna di sinistra, la compagna che cerca di spiegare e convincere che cambiare si può e si deve.
Alle famiglie la scuola pubblica offre solamente la struttura e gli insegnanti, tutto il resto lo pagano i genitori. Quando dico tutto è veramente tutto, dalla carta igienica ai colori per disegnare dai quaderni alle fotocopie. Le spese si aggirano attorno a duecento euro, che per molti sono una somma enorme e in qualche caso dobbiamo intervenire noi per non creare delle differenze che potrebbero produrre nei piccoli, ma anche nei loro genitori, la vergogna di essere poveri.
Per non parlare del momento dei “lavoretti”, le insegnanti che mettono i bambini, anche i più piccoli, in competizione a chi è più bravo nel costruire l’oggetto da regalare alla festa della mamma. Sin da subito questi piccoli possono provare la gioia della vittoria o il turbamento della sconfitta. Cosa saranno da adulti? Persone che non accetteranno l’idea di non essere primi in tutto con tutto ciò che ne consegue, in una società dove il secondo in una gara è semplicemente un perdente.
Nella struttura le classi di elementare e infanzia devono convivere forzatamente per mancanza di spazi, quindi ci si deve accontentare delle classi dove non si può correre e giocare e gridare come si deve perché altrimenti si disturbano i grandi. Quante volte abbiamo chiesto all’amministrazione di ovviare, in risposta solo grandi e inutili promesse mai realizzate.
Per finire, i rapporti con i dirigenti. Di fatto non ci sono rapporti. Ormai assomigliano a datori di lavoro, chiusi nelle loro stanze come torri d’avorio. Nessun confronto per migliorare.
Il ricordo più bello di questi anni è stato e rimane quello di una bambina che nei corridoi correva cantando “Bella Ciao”. Una maestra l’ha fermata, dicendole che queste canzoni non si cantano a scuola ma in piazza, a quel punto la bambina per niente impressionata gli ha risposto a muso duro: “Io la canto perché papà mi ha detto che è la canzone dei partigiani che ci hanno liberato e la canto dove voglio” ed è corsa via gridando ancora più forte. Mi sono venute le lacrime agli occhi, e ho pensato che c’è speranza nelle nuove generazioni.
Siccome sono convinta che la scuola pubblica, se non fosse ridotta a quel che è, sarebbe una gran bella cosa, continuerò a lottare perché ci siano tante bambine e tanti bambini liberi di giocare e gridare, guardando con fiducia alla vita che li aspetta.