Anche la grande soddisfazione per il varo in Spagna del nuovo governo Sanchez è un po’ incrinata dalla non partecipazione all’esecutivo di Podemos. Non starò qui a ricercare le responsabilità di un fatto che mette un’ombra sul risultato raggiunto in una situazione difficilissima. Come non starò ad attribuire responsabilità per le crisi e le divisioni che si stanno moltiplicando nelle sinistre alternative europee. Cerco di provare a capire. E, nel piccolo, ad aiutare. Non vedo altro approccio per chi viene da una sinistra italiana che di rotture ne ha conosciute moltissime in questi anni.
Provo da tempo a proporre di ragionare non di “colpe” ma di sconfitte. E poi, molti dei compagni che si vanno dividendo li conosco, li rispetto, sono loro affezionato. Fanno parte di quel tentativo di affrontare la politica a livello europeo - perché questo è oggi il terreno necessario - che va dai social forum al Partito della sinistra europea (nel 2024 compie 20 anni), al gruppo parlamentare europeo di cui ho fatto parte.
Penso infatti che mentre la Ue è “cresciuta” come nuovo soggetto con peculiarità del tutto inedite, non si è riusciti, come movimento operaio e come sinistre, a stare al passo. Manca quasi del tutto quel “lavoro” che da un lato Lenin con “Stato e Rivoluzione”, dall’altro Gramsci con “I Quaderni”, fecero per capire la “natura” di forza e identità del contesto in cui ci si muove.
L’Ue è una forma del tutto innovativa di assetto dei poteri, di loro equilibrio verso l’interno, gli Stati membri, e l’esterno, il capitalismo finanziario globalizzato, cui partecipa. È una entità “originale”, funzionalistica e post o a-democratica. Che peraltro in questi decenni ha “reinventato” una identità, attraverso l’uso sistematico del revisionismo storico. Uso spesso due locuzioni per definirla: “l’Europa reale” e il “moderno ancien regime”.
Naturalmente le crisi che colpiscono ormai diverse sinistre radicali europee hanno dinamiche “proprie”. Se penso all’Italia, la mia idea è che, venuto meno l’amalgama tra i materiali provenienti dalla resistenza allo scioglimento del Pci e quelli di ciò che restava della Nuova Sinistra, di fronte all’aggressività bipolare e populista del sistema politico italiano e ai colpi del “pilota automatico” europeo, si sono determinate una diaspora e una insussistenza ancora non risolte.
Ma cosa succede in Grecia, in Germania, nella stessa Francia e, per fortuna in un contesto ancora di possibilità aperte, in Spagna? Ci sono naturalmente dinamiche di gruppi dirigenti. E nazionali. In Grecia, Syriza era nata dalla convergenza di piccole formazioni “storiche”, tra cui la più consistente, il Synaspismos, figlio delle dinamiche del comunismo greco. La confluenza in Syriza non determinò una immediata espansione del nuovo partito. Ciò che portò a passare da meno del 10% (per Libertini, uno dei fondatori del Prc, la soglia per dichiararsi partito) a cifre doppie e poi quasi quadruple, fu il sommarsi della crisi del vecchio sistema politico bipartitico, travolto dagli scandali e dalla bancarotta, con uno straordinario movimento di massa contro l’austerità. Un movimento molto ampio, a conferma che i partiti non si inventano ma stanno sull’onda di eventi storici. Poi, sull’onda bisogna saperci stare. E la Syriza di Tsipras lo ha saputo fare.
Lenin fu maestro nel cavalcare l’onda della guerra e della rivoluzione e poi nel cercare un porto sicuro, la creazione dell’Urss, rispetto ad una rivoluzione che non si allargava al mondo, almeno nelle forme che qualcuno tra i rivoluzionari auspicava. Poi la storia andò come andò, ma durò settant’anni. La novità dell’oggi è che il capitalismo finanziario globalizzato vive tra le onde, surfeggia di crisi in crisi, pratica una sorte di “stabile instabilità”. Il capitalismo è sempre stato “in movimento”, ma oggi questo movimento è iper accelerato. Cercare rifugio nel porto sicuro di un governo appare quanto mai difficile.
Sul porto del governo greco si sono abbattute le onde soffiate dalla Ue. I rifugi approntati sono apparsi fragili. Syriza è enormemente cresciuta anche nei suoi componenti, tanti nuovi ma molti in arrivo dal naufragio del vecchio sistema politico. Perso il porto-governo, rioccupato da una destra che ricostruiva le sue sintonie con la Ue, non è bastata la grande nave a tornarci. E ora quella nave è, come nei romanzi di Conrad, senza forza nelle vele. E senza bussola che non sia il ritorno al governo.
Questo non va bene a molti marinai abituati a stare nelle tempeste e a cercare di attraversarle. La guerra in primis. La nuova leadership di Syriza, frutto di un processo decisionale “americaneggiante” (simile a quello del Pd), ora tende ad adeguare anche la sostanza politica alla forma. Le dimissioni dal partito di molti leader storici sono in corso, vedremo a cosa porteranno la vecchia nave Syriza e eventuali nuove imbarcazioni.
In Germania, Sahra Wagenknecht ha lasciato la Linke. Dopo Oscar Lafontaine, e insieme ad un numero tale di deputati da fare perdere alla Linke i requisiti per un gruppo parlamentare. Già alle elezioni politiche il partito era rimasto sotto lo sbarramento col suo 4,9%, ma grazie ai tre mandati diretti nel voto uninominale all’Est aveva goduto del recupero proporzionale previsto dalla legge elettorale. Il calo elettorale era abbastanza continuo sia ad Ovest che a Est. L’abbandono di Lafontaine è stato un duro colpo. E le tensioni interne sono divenute permanenti. In particolare con Sahra Wagenknecht, originariamente collocata in una corrente “ortodossa” della vecchia Pds. Parlamentare da tempo, ha acquisito via via notorietà. Il suo pensiero si è andato riformulando intorno ai temi della globalizzazione, delle sue crisi e del ruolo della Germania. Con focus sul rapporto tra migrazioni e mercato del lavoro, ed ora in particolare sulla guerra tra Russia e Ucraina. E l’idea che occorre ricostruire il rapporto popolare.
La rottura rende più difficile una riflessione, che a mio avviso è comunque necessaria.
Sono molto legato alla Linke. Lothar Bisky, che non c’è più, fu decisivo nel costruire il Partito della sinistra europea. Sono legato al loro tentativo di costruire un’altra unificazione della Germania, non revisionistica né liberale, contrastando l’annessione sic et simpliciter. Questa logica della terra bruciata per la storia e la politica dell’Est fu praticata particolarmente dall’Spd, con conseguenze nefaste per quel partito e in generale. Meno dalla Cdu, che arrivò a consegnare il testimone di Kohl a Merkel, nata all’Est. La Spd fu incapace di attingere dalla sua stessa storia, con Brandt e l’Ostpolitik. Il vuoto fu colmato a lungo dalla Linke che, grazie alla unificazione tra Pds e Wasp, diventa partito nazionale e in crescita sociale e generazionale. Ma la debolezza di Merkel e della Spd nel pensare un ruolo per la Germania unificata che non fosse il primato dell’ordoliberismo in Europa, di Maastricht e poi dell’austerity, ha impedito una qualsiasi “spinta propulsiva” che prevedesse un ruolo per la Linke e anticipasse l’esplosione della nuova destra dell’Afd.
Con la guerra tra Russia e Ucraina tutta la degenerazione revisionista tedesca accelera. La Germania diventa il Paese più belligerante. Grunen e Spd in testa. Decenni di Ostpolitik saltano in aria come il North Stream. La Germania del cancelliere socialdemocratico Scholz e della presidente della Commissione von der Leyen sceglie la guerra orwelliana e il massiccio riarmo.
Questa Germania è profondamente diversa da ciò che poteva essere se, dopo il 1989, le sinistre non consegnate al revisionismo e al neoliberalismo fossero riuscite non solo a resistere ma anche a invertire un po’ la rotta. Che era iscritta nel modo suprematista scelto dal capitalismo e sta ora in un mare permanentemente tempestoso, da quando i “dominanti” restano uniti nella lotta di classe rovesciata ma si combattono selvaggiamente per la spartizione del bottino.
Anche la tragedia palestinese trova in Germania pessimi interpreti, schiacciati sul governo di Israele come se si potessero scaricare sui palestinesi le tragedie compiute dal nazifascismo contro gli ebrei. Reinterpretare questa deriva tedesca è molto difficile. Le voci più assennate sembrano quelle dei vecchi Schroeder e Merkel. La Linke fatica a farlo, e paga una scissione.
Anche in Francia la Nupes non naviga in buone acque. Qui alcune dinamiche “nazionali” - il nuovo identitarismo del Pcf, l’egemonismo di Melanchon - hanno il loro peso. Come il tema della rappresentazione dei ceti popolari. Ma anche le guerre, e la loro interpretazione, pesano.
In Spagna, il mantenimento di un governo di sinistra, che fa anche cose di sinistra, è una controtendenza. Podemos “avverte” che bisogna stare attenti perché porti sicuri non esistono. Per questo è sbagliato non riconoscere il ruolo che la rottura di Podemos ha avuto nello sconfiggere, per ora, il vecchio sistema politico. Anche perché il Ppe si è ricostruito. E nel vecchio sistema politico c’era anche il Psoe, che Sanchez ha potuto spostare anche grazie a chi ha tenuto il punto sociale-politico. Peraltro, e lo si è visto al congresso dei socialisti europei a Malaga, questo partito è molto dentro il “versante occidentale della guerra orwelliana” in atto.
In questi anni il gruppo al parlamento europeo, ribattezzato The Left, ha tenuto seppur con molte divisioni, in particolare sulla guerra. Vedremo come nei vari Paesi ci si presenterà alle elezioni europee di giugno. Presumibilmente in alcuni Paesi ci saranno più liste che guardano a The Left. O anche ad un rapporto con i Verdi. Che nella parte prevalente della loro rappresentanza, a partire dalla Germania, sono stati segnati dal bellicismo, arrivando addirittura ad attaccare Greta Thunberg per il suo appoggio alla causa palestinese.
Siamo veramente sull’orlo del precipizio, per il mondo intero. Le crisi si sommano e possono esplodere. C’è bisogno di una via di uscita, di sinistra e radicale. La campagna per le elezioni europee deve provare a ricomporre. Sarebbe importante che dall’Italia venisse un contributo, una lista, che si concentrasse sul grande tema spartiacque: la Pace.