Il Vangelo dice che sono beati tutti coloro che cercano di costruire un mondo di pace. Un compito arduo, viste le guerre che avvelenano il pianeta. I potenti della terra imbracciano le armi invece di cercare la via della diplomazia. Mirella Manocchio è pastora metodista, presidente della (Fdei), che mette insieme le organizzazioni femminili di chiese avventiste, battiste, luterane, metodiste, riformate del Ticino, valdesi e dell’Esercito della salvezza. Portavoce di un mondo articolato e radicato nella società italiana, Manocchio racconta dell’impegno per un cessate il fuoco che lasci spazio alla diplomazia.
Sono sempre i più deboli le prime vittime di ogni conflitto armato, è un assunto che anche in questo XXI secolo trova puntuale conferma, non trova?
“Nella storia umana le guerre non hanno mai risolto le cause dei conflitti tra popoli, gruppi e nazioni, anzi hanno peggiorato le condizioni di vita delle vittime di entrambe le parti in guerra e compromesso gli ambienti naturali”, recita la mozione approvata al XIII Congresso della Federazione delle Donne Evangeliche in Italia. A noi sembra che qualcuno parli di pace, della necessità della pace, poi però ci si muove troppo poco in quella direzione. Invece ci stiamo muovendo, e molto, sul versante degli armamenti. Il nostro stesso governo non discute tanto di aiuti all’Ucraina, di sostegni per dare una mano concreta dopo l’attacco da parte della Russia, quanto di armi da inviare. Mentre noi vorremmo che molti investimenti fossero fatti su altri versanti, settori che sono in grande sofferenza. Il mondo della scuola in Italia, in questo momento, è in grande difficoltà, così come lo è quello della sanità pubblica, sono settori che avrebbero bisogno di grandi investimenti. Lo abbiamo visto in questi ultimi anni, nei mesi della pandemia, e anche ora che siamo usciti dall’emergenza Covid. Il Servizio sanitario pubblico arranca, le persone sono costrette a rivolgersi alla sanità privata per essere curate, e questo non aiuta soprattutto le fasce più deboli, chi è più in difficoltà”.
Cosa possono fare le donne Fdei?
“Noi donne evangeliche, sia per quanto riguarda l’Italia, ma anche a livello mondiale, volgiamo il nostro sguardo proprio alle fasce più deboli. A partire dalle donne naturalmente, ma anche ai bambini, ai minorenni, e più in generale a tutti coloro che sono ai margini della società. Quasi inutile dire che in situazioni di guerra, di conflitti, i più deboli sono i primi a soffrire, quelli che pagano il prezzo più alto. E questo ci sembra davvero crudele, ingiusto. Proprio in questa direzione ci siamo mosse, non soltanto con la mozione e i nostri appelli, ma anche con azioni concrete, incontri, con la partecipazione alle manifestazioni delle diverse espressioni evangeliche cui apparteniamo per dire 'No' alla guerra. Per citarne una, l’adesione della Federazione delle chiese evangeliche alla manifestazione dello scorso 5 novembre, cui anche noi come donne abbiamo aderito. Abbiamo dato vita a cortei, animato dibattiti in cui si parlava della necessità di investire sulla pace. Perché il punto è proprio questo, bisogna investire sulla pace. Ci sembra che molto, troppo si stia investendo sulla guerra, poco invece sulla pace, sulla diplomazia. Al riguardo notiamo purtroppo che l’Onu è bloccata nelle sue azioni, per come è organizzata strutturalmente, per i veti reciproci che non permettono di agire in maniera corretta e giusta per trovare delle soluzioni di pace, diplomatiche. Ma manca anche la volontà di far cessare il fuoco”.
Sembra che le parole della pace non riescano a trovare spazio, in un dibattito politico che come unico tema ha quello di produrre sempre nuovi armamenti, da inviare nelle zone di guerra.
“Dovremmo sviluppare, implementare una cultura della pace. Perché lo sappiamo, ed è stato detto da vari personaggi tra cui anche il Papa, che la guerra non è una soluzione. Il Vangelo dice che la guerra non è una soluzione, ma una sconfitta per tutti e la causa di tanti altri conflitti. Quando si innescano certi meccanismi, lo stiamo vedendo nei Balcani, diventa difficilissimo trovare una via d’uscita. I Balcani sono la riprova che se non si lavora per la pace, ricostruendo anche le relazioni tra coloro che sono stati in guerra, il rischio concreto è di ricaderci sempre. E questa è anche una delle nostre preoccupazioni. Il dopo. Cosa succede dopo? Bisognerà ricostruire un paese distrutto come l’Ucraina. Penso anche alla diga che è stata fatta saltare in questi giorni, ancora non si è capito da chi. Ma il risultato invece è sotto gli occhi di tutti: sono persone sfollate, case crollate, coltivazioni distrutte, danni ambientali ingentissimi. A proposito del ‘che fare dopo’, mi torna alla mente quello che è stato fatto in Sudafrica da due personaggi molto importanti. Dal metodista Nelson Mandela - perché quasi nessuno lo sa ma Nelson Mandela era un metodista, cresciuto nelle scuole metodiste, formato dalle scuole metodiste, grazie alle quali a suo tempo è riuscito a diventare avvocato - e da un altro gigante come il vescovo anglicano Desmond Tutu. Già, Desmond Tutu non era cattolico, ma anglicano. Questi due personaggi hanno lavorato per dare vita alla ‘Commissione per la Verità e la Riconciliazione’, una commissione che cercasse, a partire dall’ammissione di quelle che erano le reciproche colpe, in quel caso più sul lato dei bianchi segregazionisti, di ricostruire rapporti e relazioni. Diversamente non se ne esce”.
Siamo passati dal welfare, che era un vanto dell’Europa dopo la seconda guerra mondiale, al warfare di questo inizio secolo. Che fare?
“Oggi non ci si rende conto che fa parte dei conflitti, soprattutto quando riguardano le grandi potenze come possono esser gli Stati Uniti, la Russia, la Cina, l’India, l’Iran, anche la minaccia nucleare, che Putin ha fatto sentire forte. Allora ecco l’urgenza della pace, anche sotto questo profilo. La guerra ha conseguenze che riguardano tutta la popolazione. Perché le guerre non si fanno fra gli eserciti, le guerre si fanno sulle spalle delle popolazioni. Lo ripeto, noi donne evangeliche stiamo dalla parte dei più deboli. E come donne parliamo anche di sopraffazione sui corpi, i corpi delle donne che troppo spesso diventano terreno di conflitto. Tutto questo ci interroga, ci interroga a partire dalla Bibbia, dalla parola di Dio che ci richiama a posare le armi e ad operare per la giustizia e per la pace. È scritto sia nell’Antico Testamento, e nel nostro appello facciamo ferimento al libro del profeta Isaia, come nel Nuovo Testamento, le Beatitudini. Nel vangelo di Matteo, fra le tante Beatitudini ce ne sono due perfette per rispondere a questa situazione. Mi riferisco a quello che dovrebbe essere il nostro pensiero in quanto cristiane e cristiani: “Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati (...), beati quelli che si adoperano per la pace perché saranno chiamati figli e figlie di Dio (Matteo 5, 6.9)”.
Eppure gli italiani e le italiane continuano ad essere dubbiosi sulla guerra, la metà di loro si dice contraria all’escalation cui stiamo assistendo.
“Quanto facciamo noi cristiani per la pace? Per la pace e anche per incrementare la cultura della pace. La pace non può essere per noi credenti soltanto l’assenza di guerra. La pace, anche per gli ebrei, lo 'shalom' è molto di più: è l’armonia tra gli esseri viventi, l’equilibrio, la giustizia. Ecco perché è necessario portare avanti una cultura della pace che scardini le strutture che provocano ingiustizia e sopraffazione. Ricordo le partecipatissime manifestazioni ai tempi in cui gli Stati Uniti volevano attaccare l’Iraq, quel grande movimento di pace di cui anche ora si sente il bisogno. Come donne evangeliche stiamo partecipando a manifestazioni e incontri per dare più speranze alla pace. La guerra cancella qualsiasi diritto, tutto viene messo da parte per l’urgenza di difendersi o attaccare. Nel caso del conflitto tra Russia e Ucraina, bisogna costringere le due parti a parlarsi, ad aprire un canale diplomatico, che non è più derogabile. L’obiettivo deve essere la pace”.