“Il processo del lavoro compie 50 anni” - di Roberto Voza

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Un convegno il 19-20 maggio scorsi promosso da Università di Bari,

Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza sociale, Futura Editrice.

Per spiegare il “feeling tutto particolare” con la legge 533/1973, Gino Giugni amava citare un fatto autobiografico: “Mio padre passò gli ultimi anni della sua vita a rodersi la bile in una interminabile causa contro il suo datore di lavoro. La riforma della giustizia del lavoro fu per me un omaggio alla sua memoria”.

Quello del lavoro è un processo speciale per una materia speciale, caratterizzata dalla diseguaglianza tra le parti e dalla peculiarità delle situazioni sostanziali oggetto di lite, spesso ricadenti sulla dimensione personale del lavoratore con implicazioni di rango costituzionale. La questione cruciale era (e resta) quella della effettività delle tutele, a cui la legge intese dare risposta, accompagnata dalla valorizzazione giurisprudenziale di due strumenti processuali già esistenti: il procedimento d’urgenza e l’allora giovanissimo procedimento di repressione della condotta antisindacale.

Giunse così il nuovo rito del lavoro, improntato alla oralità, alla immediatezza e alla concentrazione delle attività processuali, attraverso significative novità: il giudice monocratico, le decadenze legate alla fase introduttiva, l’estensione dei poteri istruttori del giudice, la discussione della causa e la lettura del dispositivo in udienza, la possibilità di disporre in corso di causa il pagamento di somme a favore del lavoratore a titolo provvisorio, quando il giudice ritenga il diritto accertato e nei limiti per cui ritenga raggiunta la prova, la provvisoria esecutorietà delle sentenze di condanna a favore del lavoratore, il divieto di nuove domande ed eccezioni in appello e, non per ultima, la gratuità.

L’impianto di fondo del processo del lavoro è ancora quello risalente al 1973, a dimostrazione della sua capacità di proiettarsi nel futuro. Alcune novità della riforma Cartabia sembrano però indebolirne la specialità. Pensiamo al rischio che la trattazione scritta eroda il cardine dell’oralità, tipico del rito del lavoro, dove più che mai la libertà del convincimento “vuole l’aria e la luce dell’udienza” (G. Chiovenda). Pensiamo a ciò che potrà accadere nei successivi gradi di giudizio, in conseguenza dei filtri di accesso alle impugnazioni, voluti per contribuire allo smaltimento delle cause: in particolare, il meccanismo acceleratorio del giudizio in Cassazione, sotto minaccia di un aggravio del costo della sconfitta, non farà che inasprire la disparità economica fra le parti.

Del resto, da più di un decennio è in atto una netta diminuzione del numero di cause, soprattutto nel settore privato. Chi c’è, oggi, al centro del processo? Certamente non ci sono i nomadi del lavoro, che passano da contratto a contratto, da azienda ad azienda, percorrendo una traiettoria esistenziale poggiata sulle sabbie mobili dell’insicurezza. Tra un impiego e l’altro vanno in pausa, non in causa, anche perché disincentivati da continue oscillazioni normative (si pensi al decreto lavoro di maggio).

Ma anche per i lavoratori stabili è diminuita fortemente la propensione al contenzioso per una serie di fattori, tra cui il venir meno della gratuità del processo, il nuovo regime della condanna alle spese (che rende più difficile al lavoratore soccombente ottenerne la compensazione), l’introduzione di barriere varie, come pure la crescente frammentazione e tortuosità delle tutele, che ha visto retrocedere i margini di sindacabilità giudiziale delle decisioni imprenditoriali.

Emblematica è la materia dei licenziamenti, ove, nel complicato groviglio di sanzioni (legate al numero dei dipendenti, alla data di assunzione, alla gravità del vizio del licenziamento, ecc.), si trascura che la forma generale di tutela, soprattutto quando sono in ballo diritti fondamentali, sarebbe quella che attribuisce, a chi è costretto ad agire in giudizio, quel bene della vita (il posto di lavoro, in caso di licenziamento illegittimo) che aveva diritto di ottenere sul piano sostanziale, oppure – se proprio ciò non è possibile – il suo pieno equivalente monetario (non un pallido succedaneo, privo dei caratteri di adeguatezza, effettività e dissuasività).

 

Progressivamente, il processo del lavoro si sta deflazionando da solo, senza neppure bisogno di attivare i tanti agognati strumenti alternativi di risoluzione delle controversie. È un risultato di cui vantarsi? Certo che la giurisdizione è una risorsa preziosa e non andrebbe mai sprecata, ma c’è una evidente differenza tra scoraggiare l’abuso del processo e scoraggiare il processo in quanto tale.

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