È l’otto marzo. A Roma, in un centro commerciale, la futura segretaria del Pd incontra una delegazione di lavoratrici della grande distribuzione. Alla fine Elly Schlein dice della Distribuzione Moderna Organizzata (Dmo): “E' un settore ad alta concentrazione femminile ma ad alto tasso di precarietà”, dove “occorre […] assicurare un salario minimo, contrastare le forme di part time involontario” e si registrano difficoltà “dovute all’obbligo di lavoro nei festivi e le domeniche”.
Questo centro commerciale potrebbe essere un punto vendita Ikea, tanto le parole di Schlein si adattano alla multinazionale giallo-blu, che in due decenni, da porta-bandiera della svedesità in Italia, si è giocata molta della propria credibilità originaria.
Il punto di svolta si registra nel 2014, quando Ikea esce dal Ccnl Confcommercio e disdetta il contratto integrativo. Le riduzioni presentate alle organizzazioni sindacali, in nome della sostenibilità, su maggiorazioni domenicali e festivi, mansioni e organizzazione del lavoro suscitano un’ondata di scioperi, che sfociano nel nuovo contratto integrativo aziendale (Cia) “di responsabilità”. I “co-workers” lo sottoscrivono controvoglia con il referendum del 2014, lasciandosi dietro strascichi non del tutto cicatrizzati.
Infatti ai sacrifici richiesti non corrispondono le aspettative di decrescita. Tutt’altro. L’azienda cresce e tanto. Ma nonostante ciò si inaugura un’ulteriore fase di ristrutturazione (e tagli sul personale) che si ferma solo con la “vicenda Marika”, quando una lavoratrice, madre con la 104, viene licenziata perché si determinava gli orari per seguire le terapie del figlio disabile.
La reazione sindacale è immediata, accentuata dal contraddittorio contesto di decrescita indotto e, anche se sul piano legale il giudice sentenzia a sfavore di Marika, si arriva a uno stop ai licenziamenti.
Si arriva così al 2017, quando Ikea inizia a orbitare nella nuova galassia Federdistribuzione e dotarsi del nuovo contratto Dmo e di discutere il nuovo Cia, sul quale le aspettative sono alte. Ma, come è noto, su tutto cala la pandemia e la trattativa si cristallizza (e si impaluda) nelle riunioni a distanza.
Tra negozi, magazzini e call-center, oggi Ikea conta circa 8mila dipendenti, ai quali si deve aggiungere una schiera di lavoratori a tempo determinato variabile, pari al 20-40% dei consolidati, su cui ricade l’attività più pesante, gli orari sfavorevoli, i sacrifici continui accettati nella speranza di strappare il contratto a tempo indeterminato al volgere del periodo di prova.
Per gli indeterminati invece il problema è il part-time involontario. Il 70% degli occupati sopravvive così; con una retribuzione insufficiente e senza vantaggi nemmeno sul piano dell’organizzazione del lavoro. I turni sono imposti unilateralmente dall’azienda, anche con scarso preavviso, e con buona pace di chi ha una vita (o un secondo lavoro) fuori dalla scatola.
Altro tema caldo è il riconoscimento delle mansioni specialistiche: rimasto lettera morta, con forzature e squilibri in nome di una flessibilità del “tutti devono saper fare tutto”, che non corrisponde al riconoscimento della professionalità maturata dai lavoratori più esperti nel non facile contesto dell’operare nella folla dei fine settimana, quasi tutti dentro, e/o dei festivi imposti obbligatoriamente.
Il jobs act, la liberalizzazione degli orari di apertura, la vacanza di un Ccnl Dmo e del nuovo Cia completano il quadro, e giustificano le parole di Schlein su minacce e ricatti. Precarietà, lavoro povero, equilibrio orario, sicurezza: sono i temi raccontati dai lavoratori nelle recenti assemblee congressuali, cui si aggiungono le rivendicazioni dei lavoratori in appalto (pulizie, vigilanza) confinati in un’inaccettabile condizione di inferiorità sociale e privazione (degli spogliatoi e della mensa in primis).
Sono tutti fattori che rendono attuale ciò che una volta ho sentito in assemblea: “Ikea è proprio un bel posto: all’ingresso trovi il banchetto delle Ong ma ti negano i permessi genitoriali”. Non è Schlein però…