Gli Stati Uniti devono attraversare una fase storica cruciale; battere la concorrenza cinese e quella europea. Per poterlo fare hanno bisogno di generare tanta spesa pubblica e attrarre tanti investimenti; una condizione possibile solo con il monopolio monetario globale. In altre parole, poter stampare dollari senza limiti, perché il dollaro è la sola valuta globale. Ciò diventa praticabile se nell’immaginario mondiale rappresentano la sola iperpotenza che impone le proprie strategie ovunque, con la guida delle organizzazioni internazionali e con le guerre ‘necessarie’.
Negli anni ottanta del secolo scorso il ‘Washington consensus’ serviva a costruire la centralità del mercato, oggi serve a sostenere il connubio fra finanziarizzazione e intervento pubblico in nome dell’‘American first’. Cinesi ed europei devono accettarlo o sono tacciati di essere contrari alla libertà e alla democrazia, naturalmente degli americani stessi.
Provo ad essere ancora più chiaro con due considerazioni specifiche. La prima ha un’evidenza numerica. Il debito pubblico americano è pari a 31mila miliardi di dollari, di cui circa 7mila sono in mani straniere. I cinesi ne hanno 800 miliardi, la metà di quanti ne avevano nel 2015. Questo debito lieviterà di 20mila miliardi nei prossimi dieci anni. Dunque, per essere finanziato, avrà bisogno di attirare capitali esteri in misura ancora maggiore. Gli alti tassi della Federal Reserve servono a quello ancor più che a contenere l’inflazione.
Per coprire il costo della gigantesca produzione di debito e, in particolare, della sua monetizzazione, senza aumentare le imposte, occorre così una grande produzione di dollari possibile solo se gli scambi in dollari crescono a livello mondiale. Sottrarre all’euro fette crescenti di geografie monetarie permette dunque di dollarizzare ancora di più il pianeta, e rende possibili i tassi alti che finanziano il debito Usa.
La guerra serve anche a questo: a riaffermare che solo il dollaro è la valuta globale, e quindi la merce più preziosa che gli Stati Uniti possono produrre senza limiti e vendere al resto del mondo.
La seconda considerazione riguarda il ‘piano di pace’ cinese. Tale testo ha certamente molte contraddizioni strumentali, tuttavia è un segnale importante e diretto alla Russia perché accetti di interrompere le ostilità. È evidente che la Cina teme un indebolimento delle sue relazioni con i mercati internazionali, avendo chiaro che non ne può fare a meno. Al tempo stesso con il suo piano la Cina vuol far capire a Putin che è difficilmente immaginabile un blocco cino-russo autosufficiente. Quindi, mi sembra di poter dire, semplificando molto, che quella cinese è un’apertura per rendere possibile un confronto.
La reazione statunitense è stata però molto dura, decisamente preoccupata, perché sembra sempre più evidente che l’amministrazione Biden vuole, come accennato, un mondo unipolare dove gli Stati Uniti attraggono capitali e risorse e forniscono al mondo moneta e finanza: si tratta della strada per tornare ad avere un secolo americano.
Di fronte alla Cina, il democratico Biden riprende le tesi neocon di Bush junior. In quest’ottica, l’Europa va disgregata, divisa, decentrata, come dimostra la visita del presidente degli Stati Uniti a Varsavia e non a Bruxelles. Ma, in un simile contesto, la posizione più incomprensibile è quella europea espressa da Josep Borrell, il “titolare” della politica estera dell’Unione, subito prona a quella Usa e ancora più duramente anticinese: una scelta che significa accettare la periferizzazione e la rinuncia ad ogni interlocuzione con la Cina, che dovrebbe diventare invece “la patria dell’euro” per consentire al vecchio continente di finanziare la propria indispensabile spesa pubblica e di non essere travolto dai colossali aiuti di Stato Usa, finanziati, appunto, con il dollaro.
L’Europa e la Bce sembrano invece invocare una nuova austerity, destinata a frenare l’inflazione e aumentare le disuguaglianze. L’istituto di Francoforte, infatti, alza i tassi e smette di comprare debito producendo un effetto immediato; i mutui costano di più, ed è probabile dunque che gli europei ne faranno di meno raffreddando l’inflazione e innescando spirali recessive, almeno per la parte più fragile della popolazione che non potrà reggere il costo dei nuovi mutui. Nel frattempo il rialzo dei tassi scatena gli utili delle banche – quelle italiane hanno fatto 12 miliardi di utili in pochi mesi - distribuiti in larga parte ai grandi fondi hedge, che sono nel loro azionariato, e gela la spesa pubblica, non più coperta dalla stessa Bce. In sintesi meno spesa pubblica e più profitti per pochi. Ma il problema sono i cinesi.