Diamo ai giovani un futuro di diritti e solidarietà, non di competizione - di Rosanna Rapisarda

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Intervento al congresso nazionale Filctem Cgil, Torino 15-17 febbraio 2023.

Buongiorno a tutte e tutti, mi presento: sono un’operaia della Tessitura Monti, azienda tessile di un piccolo comune del trevigiano, Maserada sul Piave, ed è a nome di tutti i miei colleghi che oggi vi parlo di essa e della crisi in cui versa.

La Tessitura Monti è un’azienda tessile che nasce nel 1911, dunque un’azienda storica che ha rappresentato per tutti i lavoratori, per oltre un secolo, non solo una fonte di sussistenza, ma il senso di appartenenza alla comunità stessa, contribuendo nel tempo allo sviluppo del territorio, facendoli sentire parte attiva di quel processo e non solo dei soggetti alienati.

Accade però che quasi vent’anni fa, come è successo per molte altre aziende del Veneto, la dirigenza decide di delocalizzare in India e in Repubblica Ceca. Non chiude lo stabilimento di Maserada sul Piave, ma sposta una grande parte del processo produttivo, e quindi dei macchinari, in Paesi dove ovviamente il costo del lavoro è minore. Lo stabilimento di Maserada sul Piave contava più di mille lavoratori all’interno del proprio sito industriale, immaginate dunque l’imponente esubero che quella scelta ha comportato nel tempo.

Grazie alle rappresentanze sindacali ci siamo avvalsi negli anni di numerosi ammortizzatori sociali che hanno accompagnato molti lavoratori al pensionamento. Altri invece, dopo questi, si sono ritrovati senza un lavoro e con non poche difficoltà sia dal punto di vista di ricerca di una nuova occupazione, sia dal punto di vista psicologico, poiché avere un reddito sicuro permette ad un individuo di vivere più serenamente e di creare relazioni sociali che lo fanno sentire parte integrante della società in cui vive.

Tre anni fa l’azienda, dopo anni di tribolazioni, vive la sua fase più critica, che la porta a chiedere il commissariamento da parte del Tribunale di Treviso, commissariamento che ha come obiettivo quello di riuscire a vendere l’azienda e di venderla assicurandosi che il futuro compratore offra un piano industriale che assorba tutti i lavoratori.

E’ notizia di qualche giorno fa che un compratore c’è, ma che questo, non ha intenzione di mantenere tutti i 160 posti di lavoro (questo è il numero di dipendenti rimasto), ma di voler assorbire solo la metà di essi. Queste sono le condizioni. E sono anche le condizioni migliori, perché l’ipotesi peggiore, nel caso la trattativa non vada
in porto, è quella del fallimento e quindi della chiusura definitiva dello stabilimento. Ecco… immaginate lo sgomento di tutti noi…

Eravamo quasi certi che questo sarebbe stato il triste epilogo prima o poi, ma siamo esseri umani e la speranza è sempre stata il filo conduttore di tutta questa vicenda, ed è per quel ‘‘quasi’’ che ci siamo sempre battuti, perché volevamo credere che per una volta le cose andassero diversamente.

L’impatto sociale che il numero degli esuberi avrà come conseguenza sulla collettività sarà drammatico, e si aggiungerà a quello definito da altre aziende che vivono lo stesso disastro. L’età media dei lavoratori supera i 50 anni, capite bene dunque quali e quante saranno le difficoltà a cui dovremo far fronte. Per questo ci tengo in particolar modo che l’attenzione resti alta su questa questione, che rischia di passare inosservata e in sordina in mezzo a crisi più imponenti che riguardano aziende ben più grosse della nostra.

Noi lavoratori della Tessitura Monti, insieme al sindacato, ci batteremo fino all’ultimo per salvaguardare il più possibile il nostro posto di lavoro.

C’è un altro tema di cui voglio parlare che mi sta particolarmente a cuore, perché oltre ad essere una lavoratrice sono una mamma, e riguarda i giovani. Più volte, nei dibattiti che si sono succeduti in tutti i congressi tenutisi fino ad ora, hanno echeggiato le parole ‘‘giovani’’ e ‘‘futuro’’. Abbiamo tutti compreso che non si può fare a meno di parlare di futuro senza occuparci dei giovani, e che non si può guardare ai giovani senza vederli proiettati nel futuro.

Viviamo in un periodo storico difficilissimo, e non perché le altre epoche siano state meno complesse sotto ogni punto di vista, ma perché questo è un tempo cruciale e di svolta, nel quale i passi che muoviamo e le scelte che compiamo possono condizionare in maniera importante il domani, inficiandolo irrimediabilmente, qualora quei passi e quelle scelte fossero sbagliati.

Appariamo tutti molto preoccupati per i nostri ragazzi, la politica per prima, ma poi nei fatti tutto parla loro di altro. Ed è proprio la percezione di un falso interesse nei loro confronti che essi hanno, che ha determinato, verso le istituzioni, un rapporto di sfiducia che li allontana dalla macchina governativa. Ma, cosa ancor più grave, dalla politica nel senso più aulico di questa parola.

I ragazzi non si sentono rappresentati nel cambiamento, e non si sentono rappresentati da una visione del mondo che cozza con quella vetusta e poco fluida di un tempo che loro considerano superato. L’idea di profitto cambia: i giovani puntano alla qualità della vita, alla realizzazione dei propri sogni, quindi orari ridotti di lavoro per rispettare i ritmi di vita, per potersi esprimere, per mantenere la propria identità, perché la vita è una e va vissuta pienamente senza sfinirsi per lavorare, e che la tecnologia deve essere al servizio degli esseri umani, e non il contrario.

Il processo tecnologico e la globalizzazione economica hanno gradualmente reso i rapporti di lavoro sempre più flessibili e instabili, poco negoziabili, meno retribuiti e privi di molti dei diritti garantiti nei contratti tradizionali. L’instabilità lavorativa è diventata strutturale ed ha diffuso, soprattutto tra i giovani, una condizione di incertezza, di frammentazione e mancanza di diritti, causata in primo luogo dalla discontinuità di reddito.

Per molti giovani, la famiglia costituisce l’unico ammortizzatore sociale in grado di sobbarcarsi i costi della loro disoccupazione. Dunque cosa stiamo lasciando loro in eredità? Una precarietà lavorativa che si traduce in precarietà sociale che ostacola l’organizzazione della vita privata di ciascuno di loro, e che li colpisce con forme di esclusione e di marginalità, nonché stress e patologie psicosomatiche come ansia, depressione, ecc …, e una gravissima crisi climatica e ambientale che dovranno in qualche modo arginare. Crisi causata dalle nostre scelte scellerate mirate esclusivamente al profitto, e ad una poco lungimirante visione del domani.

Siamo stati e siamo dei pessimi maestri ed educatori. Pretendiamo che si adoperino per il bene comune quando noi per primi dovremmo recuperare il senso di collettività in un mondo che insegna loro a ridefinire muri, confini, e dove i più deboli sono ritenuti colpevoli delle loro fragilità, della loro povertà.

Siamo pessimi educatori perché ipocritamente e contraddittoriamente diciamo loro che la violenza va condannata sempre, ma facciamo le guerre, rimandando loro il messaggio che esiste una violenza ‘‘giustificata e giustificabile’’ e che la guerra è giusta quando a morire sono i figli degli altri.

Spieghiamo anche che esiste una scuola del merito e ne istituiamo addirittura un ministero che promuove una società dove solo i migliori hanno accesso, mentre tutti coloro che sono meno propensi allo studio o con velleità o talenti che rifuggono il sistema scolastico così com’è, sono considerati cittadini di serie B.

E così restiamo sgomenti davanti alle parole di scuse per i propri fallimenti di una studentessa di 19 anni che si suicida nel bagno dell’università che frequenta, cercando la spiegazione di quel gesto estremo nei due anni di pandemia vissuti, i quali avrebbero svolto un ruolo nella psiche dei nostri ragazzi, ma non ci interroghiamo sul modello di società costruito nel tempo che li forgia per essere sempre più competitivi e infallibili, e lavora precocemente per introdurli nella macchina produttiva del lavoro per trasformarli in numeri utili al capitale. Lo fa attraverso l’alternanza scuola/lavoro.

Perché perdere tempo a studiare la storia, la filosofia, la letteratura, l’arte? Perchè lavorare per creare esseri umani intrisi di bellezza, soggetti pensanti con spirito critico, quando possiamo avvalerci di manovalanza gratuita e menti facilmente manipolabili e controllabili dal sistema?

Per questo credo sia necessario un enorme lavoro di avvicinamento ai nostri ragazzi anche da parte del sindacato. Facciamo sì che i congressi siano luoghi di incontro con loro, invitiamoli a partecipare a queste assemblee e confrontiamoci. Ascoltiamo cosa hanno da dirci, facciamoci indicare la strada da percorrere, facciamo sentire che crediamo in loro, che la loro opinione è importante e che la prenderemo in considerazione. Rendiamoli partecipi del nostro lavoro, e facciamolo conoscere affinché possano comprendere che non siamo tutti uguali, e che c’è gente che si adopera perché i diritti di tutti siano tutelati e siano proprio di tutti. Facciamo sì che il loro “tanto non cambierà mai niente” si emancipi per trasformarsi in una nuova briglia, pronta a cavalcare con coraggio e fiducia il futuro.

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