Una vita al manifesto. Tommaso Di Francesco non è soltanto un poeta, un giornalista e uno scrittore, è anche l’intera storia del quotidiano comunista. Aveva solo 21 anni quando entrò a far parte del collettivo editoriale, nel 1969. Da allora non c’è stato giorno in cui non abbia dato il suo prezioso contributo alla realizzazione del giornale, di cui è stato prima redattore di politica estera, poi per 15 anni caposervizio, per altri dieci caporedattore, e dal 2014 condirettore insieme a Norma Rangeri. Le sue poesie e i suoi racconti sono pubblicati su riviste italiane e straniere, a partire dal suo esordio nel 1968 su Nuovi Argomenti, diretta da Pier Paolo Pasolini. Considera la tragica evoluzione del conflitto russo-ucraino, seguito con attenzione fin dal 2014, un viaggio senza ritorno.
Direttore, non si vedono luci in fondo al tunnel della guerra. Mosca bombarda, e l’unico intervento occidentale è quello dell’invio di armi al governo di Kiev. Quanto può durare ancora una situazione del genere?
Può durare, ahinoi. La tragedia è proprio questa. Oggi sulla pelle degli ucraini e, prima o poi, anche allargandosi ad obiettivi russi. Siamo ormai quasi ad un anno dall’invasione, e l’invio di armi sostituisce una politica estera inesistente. Possiamo dirlo, una iniziativa diplomatica vera e propria non c’è mai stata. Una forte responsabilità ce l’ha Putin, che con l’invasione ha provocato il disastro che abbiamo sotto gli occhi. Facendo tra l’altro un grandissimo regalo agli Stati uniti che, da tempo, lavoravano sull’obiettivo di avere un’Europa atlantica ed a trazione Usa. Quindi con l’azzeramento di tutti gli sforzi fatti per costruire una unione continentale. Un’altra parte di responsabilità deriva dal fatto che, viste le origini e le cause della guerra, poco o niente si è fatto per spengere un incendio divampato nel 2014 con l’oscura Maidan. Poi c’è stata l’annessione della Crimea, che è stata rivendicata con un referendum fra la popolazione. Da lì è partita la prima fase del conflitto, che ha provocato 14mila morti e due milioni di profughi. Con due tentativi di mediazione, i trattati Minsk 1 e Minsk 2, entrambi falliti. Così non si è fatto un solo passo in avanti. Anzi la situazione si è ulteriormente aggravata perché, se la Crimea è storicamente un territorio popolato dai russi, il Donbass non lo è. E non poteva essere ascritto alla Federazione Russa, come invece ha fatto Putin. Tuttavia un tentativo di mediazione c’era stato, a cominciare dalla neutralità dell’Ucraina rispetto alle alleanze militari. Invece, solo pochi giorni fa, il segretario della Nato, Stoltemberg, ha rivendicato l’entrata dell’Ucraina nell’alleanza militare. Possiamo dire allora che ogni razionalità è scomparsa, alla guerra si risponde con più guerra. E per chi ha nella propria Costituzione il ripudio della guerra, questo è un obbrobrio. L’unica speranza che ci resta è la costruzione di un movimento contro la guerra.
L’analisi più adeguata a quanto sta avvenendo sul campo sembra essere quella del Pentagono. Il capo di stato maggiore Mark Milley è stato esplicito: ‘Devono riconoscere entrambi che probabilmente non ci sarà una vittoria militare, nel senso stretto del termine. E quindi è necessario volgersi verso altre opzioni’. Quali potrebbero essere?
Sembra paradossale ma, quando ci sono le guerre, i militari sono meno guerrafondai e più lungimiranti dei politici, che scambiano l’invio delle armi come politica estera. La valutazione fatta già a novembre dal Pentagono è confermata dagli ultimi dati. Più o meno ci troviamo di fronte a 100mila morti da una parte e 100mila morti dall’altra, senza contare le vittime civili. Putin dice che non mira ai civili ma in realtà la tragedia è che per terrorizzare si colpiscono anche loro, stante il fatto che c’è sempre il problema della dislocazione delle armi ucraine che mette a rischio la sicurezza della popolazione, come ha denunciato Amnesty International. Mark Milley ha ragione, la situazione è di stallo, dunque sarebbe il momento giusto per proporre una ipotesi di negoziato. Ma questa mossa non viene fatta, e così siamo sull’orlo di una crisi ancora più grave.
La fotografia del momento è quella del vertice di Ramstein, dove gli storici paesi Nato, Germania in testa, cominciano a chiedersi fino a che punto bisogna armare l’Ucraina. Mentre quelli di nuovo conio, in particolare Polonia e Paesi baltici, scalpitano per inviare nuovi aiuti militari a Zelensky. Una immagine inquietante.
Andiamo da un vertice all’altro. Ci fu quello dell’aprile scorso, incentrato sulle sanzioni alla Russia. Ma visto che le sanzioni non hanno avuto l’effetto desiderato, sono tornati a Ramstein. E sì, la Nato si è divisa, perché la Germania non vuole mandare i suoi carrarmati Leopard e, pressata dagli alleati più belligeranti, sta facendo trapelare di inviarne solo una decina, al pari di Polonia e Olanda, mentre Zelensky ne chiede centinaia. Il nuovo ministro della difesa Pistorius ha detto a chiare lettere che ci sono molte cose su cui riflettere, e che è essenziale la sicurezza della popolazione tedesca. La Germania non può dimenticarsi di quello che è successo nel 1941, quando il regime nazista invase l’Unione Sovietica. È un precedente che influenza notevolmente la discussione in quel paese, molto meno negli altri. Per questo, di fronte alle insistenze degli Stati Uniti, la Germania ha chiesto di mettere in campo anche i carri Abrams, che gli Usa non hanno realmente intenzione di inviare. A Berlino si parla ormai apertamente di una guerra fatta per procura, e ci si chiede perché dovrebbe farla la Germania. Insomma sono scettici, perché l’invio di queste armi sempre più potenti, sempre più sofisticate, e soprattutto senza differenze fra difensive e offensive, rischia di trasformare tutti i Paesi della Nato, Polonia in primis, in cobelligeranti. È questa la tragedia che stiamo vivendo.
In questo terribile contesto, che ruolo sta giocando l’informazione?
Per avere informazioni oggettive su quello che sta accadendo, e riflessioni come quelle sui dubbi della Germania ad armare sempre più l’Ucraina, bisogna leggere il New York Times. Non l’avrei mai detto ma è proprio così, è su quel quotidiano che sono state fatte presenti le difficoltà della Germania, con il suo passato, di diventare cobelligerante a pieno titolo. Sempre il New York Times si chiede fino a che punto gli Stati Uniti possono spingere questa guerra in Europa. Domandandosi fin quando possa durare, e quale sia la linea rossa da non oltrepassare. Per certo l’amministrazione Biden è soddisfatta del regalo che le ha fatto Putin, perché con la guerra anche l’Europa che abbiamo conosciuto, l’Unione europea, si sta progressivamente disfacendo. Emerge un’Europa alternativa, prima c’è stato il patto di Visegrad e adesso quello di Tallin, a trazione americana. Non parliamo poi della Gran Bretagna, organicamente al fianco degli Usa. Insomma l’Unione europea sta sparendo, e anche di questo Biden dovrebbe essere grato a Putin, che ha creato un Afghanistan nel cuore del vecchio continente. Un conflitto che costa un’enormità, ribaltando le priorità che dopo il Covid dovrebbero invece essere centrali, e di fronte a una crisi economica fortissima in tutti i Paesi occidentali. La priorità dovrebbe essere la salvaguardia del welfare europeo, invece stiamo salvaguardando il warfare.
Papa Francesco non perde occasione per denunciare la follia di un conflitto che, come accade in ogni guerra, provoca migliaia di vittime, sofferenze sempre più insopportabili nella popolazione civile, e immani devastazioni. Ma la sua parola, e quella del popolo della pace, non viene presa in considerazione. Che fare?
Il Papa è inascoltato, sia da Putin che dalle capitali occidentali. Si è addirittura proposto come mediatore, ma di fatto gli è stato risposto picche. Dietro questo atteggiamento dei belligeranti, in particolare della Russia, c’è anche un profondo elemento religioso e culturale. C’è l’autonomia della chiesa ortodossa da quella cattolica, e con la guerra si è addirittura consumata una rottura nella chiesa ortodossa, parte di essa è stata perfino bandita perché considerata asservita a Putin. Il conflitto ha portato il Papa ad alzare ripetutamente la voce, ma alla prova dei fatti Francesco resta inascoltato. La sola speranza è la costruzione di un vero movimento contro la guerra. Un movimento che attraversi l’intera società. Ad esempio, è di questi giorni la scoperta al porto di Livorno di un traffico di sistemi d’arma italiani, destinati all’Etiopia. Insomma è assolutamente necessario un coinvolgimento generalizzato alle ragioni della pace. Non dimentico che già nella guerra del Golfo il movimento pacifista rimase inascoltato. Ma è l’unica vera speranza che abbiamo in questo momento.
Le accuse di putinismo si sprecheranno…
Non solo, dobbiamo subire anche lo sfottò di Giorgia Meloni, pronta a dire che la pace non si ottiene sbandierando la bandiera arcobaleno. Ma non si ottiene nemmeno inviando armi, perché se si risponde alla guerra con la guerra si diventa cobelligeranti, e non si dà alcuna prospettiva alle ipotesi di trattativa, di mediazione. Probabilmente Putin dovrà fare passi indietro, per arrivare a una Minsk 3. Questo vorrebbe dire riconoscere che il Donbass è all’interno di una struttura federale, che pure al momento non c’è, dell’Ucraina. E stabilire che quelle popolazioni hanno diritto di voto per decidere come e dove devono stare. Inoltre è fondamentale la questione della neutralità dell’Ucraina rispetto alla Nato. Anche se Putin e Zelensky non saranno d’accordo, bisogna battersi per questo. Altrimenti diventiamo cobelligeranti, la guerra si allarga, l’escalation continua, e noi ci ritroveremo fra un anno con altre centinaia di migliaia di morti, fra cui molti civili, e il solo risultato della devastazione di parte dell’Europa. Mentre nel frattempo l’Unione europea sarà di fatto scomparsa.