Le retribuzioni dei lavoratori pubblici sempre più penalizzate - di Raffaele Miglietta

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È quanto emerge con evidenza da un recente rapporto Aran.

Dal “Rapporto semestrale sulle retribuzioni dei pubblici dipendenti” pubblicato recentemente dall’Aran (l’agenzia che rappresenta la Pubblica amministrazione nelle contrattazioni collettive nazionali), emergono con tutta evidenza le difficoltà in cui versano i lavoratori dei comparti pubblici.

In primo luogo, risalta il grave ritardo con cui nel 2022 sono stati rinnovati i quattro Ccnl rivolti ai settori pubblici (Funzioni centrali, Funzioni locali, Sanità, Istruzione e Ricerca), un anno dopo la scadenza del periodo di vigenza, cioè il triennio 2019-21, per un totale di quattro anni di ritardo. In particolare, per il settore Istruzione lo scorso dicembre è stata sottoscritta solo un’anticipazione della parte economica, in attesa di definire ancora tutta la parte normativa del Ccnl.

Si pone qui il primo grosso problema, ovvero lo scarto temporale tra sottoscrizione del contratto rispetto al periodo di validità, con le evidenti ripercussioni negative per i lavoratori a partire dal ritardato adeguamento delle retribuzioni.

Le responsabilità di questo ritardo sono tutte in capo al datore di lavoro pubblico, poiché le risorse necessarie a finanziare i rinnovi contrattuali devono essere previste nella legge di bilancio dello Stato, ma queste vengono stanziate sistematicamente a fine del triennio contrattuale, determinando così un ritardo strutturale già all’avvio dell’iter negoziale.

Purtroppo questo ritardo è destinato a perpetuarsi anche per il prossimo triennio 2022-24, poiché ancora non è stato stanziato nulla per i prossimi rinnovi contrattuali della Pubblica amministrazione. L’ultima legge di bilancio - quella varata dal governo Meloni - ha stanziato solo un miliardo di euro per corrispondere soltanto un emolumento accessorio una tantum relativo al 2023, pari ad all’1,5% dello stipendio, a fronte di un’inflazione che ormai viaggia al 10%. Si tratta in pratica di un taglio predeterminato del potere d’acquisto delle retribuzioni dei lavoratori pubblici, che consente al governo di risparmiare almeno 15 miliardi di euro. Il governo poi, con i soldi risparmiati per i mancati rinnovi contrattuali, potrà realizzare discutibilissimi interventi (come la flat tax, la rottamazione delle cartelle, ecc.) che premiamo quelle categorie che, diversamente dai lavoratori dipendenti, non brillano per il loro contributo fiscale ai conti statali.

Dal rapporto Aran emerge anche un altro dato estremamente negativo, l’impoverimento dei lavoratori pubblici negli ultimi dieci anni. Infatti, per il periodo che va dal 2013 al 2022, risulta una crescita delle retribuzioni contrattuali per l’intera economia del 10,2%; invece per il complesso della Pubblica amministrazione la crescita è stata solo del 6,7% (per i settori privati è stata dell’11,6%), a fronte di un’inflazione che per il medesimo periodo è risultata pari al 13,8%.

È evidente che su questo dato negativo dei comparti pubblici abbia inciso il blocco contrattuale fino al 2016. Ma è anche vero che il successivo riavvio della contrattazione (anche a seguito di una perentoria sentenza costituzionale) non è bastato a tutelare le retribuzioni del personale pubblico. Ciò per i motivi sopra richiamati (i ritardi nei rinnovi contrattuali), a cui si aggiunge anche l’inadeguatezza del meccanismo di rivalutazione delle retribuzioni, che non prevede il recupero della perdita salariale rispetto al periodo precedente. Tale perdita è destinata ad aumentare se si continuerà a prendere a riferimento l’indice Ipca (che misura la variazione dell’inflazione al netto della dinamica dei prezzi dei beni energetici importati), in particolare in un periodo in cui l’aumento dei prezzi è fortemente dipendente proprio dai prodotti energetici. Ciò significherebbe scaricare intenzionalmente sugli stipendi dei lavoratori il costo della crisi economica.

C’è pertanto un’esigenza condivisa da tutti i lavoratori (pubblici e privati): la difesa dei salari dall’innalzamento dell’inflazione reale. Per fare questo occorre introdurre misure in grado di agganciare gli stipendi alla dinamica inflattiva reale, come ha affermato di recente perfino Nicolas Schmit, commissario Ue per il lavoro e i diritti sociali.

Poi c’è una questione che riguarda specificatamente i lavoratori pubblici: i rinnovi contrattuali non possono dipendere dalla volubilità politica del governo di turno che deve stanziare le risorse necessarie. Occorre ripensare profondamente le procedure e le norme che regolano attualmente i rinnovi contrattuali nella Pubblica amministrazione, procedure che non sono in tutto e per tutto assimilabili a quelle dei settori privati, come le difficoltà di questi anni hanno ampiamente dimostrato.

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