Il 18 novembre si è chiusa la 27esima conferenza delle parti sul clima dell’Onu. Una Cop partita con i peggiori presupposti, presieduta da un regime che calpesta i diritti umani e con la presenza di oltre 600 lobbisti dei combustibili fossili. In apertura il Segretario generale dell’Onu Guterres aveva cercato di scuotere i leader mondiali, ricordando loro: “Siamo su un’autostrada verso l’inferno climatico, con il piede premuto sull’acceleratore”.
Tutti i dati confermano il suo grido d’allarme: il rapporto Unfccc pubblicato il 26 ottobre scorso dice con chiarezza che siamo molto lontani dal raggiungere l’obiettivo di aumentare le temperature di non oltre 1,5°C. Con gli attuali impegni cresceranno fra i 2,1 e 2,9°C, una vera e propria catastrofe climatica, aggravata dalla crisi energetica che invece di accelerare la transizione sta rafforzando l’utilizzo delle fonti fossili.
Il 17 novembre (quando scriviamo, ndr) è stata pubblicata una bozza di documento finale che rispecchia le peggiori previsioni. Si tratta di un testo di 20 pagine, ancora lontano dall’essere definitivo, ma la cui lettura fa presagire l’ennesima occasione persa. Quella che veniva annunciata come una Cop per l’attuazione e per l’Africa potrebbe chiudersi con un testo che non ha niente a che fare né con l’implementazione dell’azione climatica e della giustizia sociale, né con il sostegno ai paesi in via di sviluppo, quanto piuttosto con i desiderata dei lobbisti del fossile.
Il testo riconosce che la crisi alimentare aggrava gli impatti dei cambiamenti climatici, in particolare nei paesi in via di sviluppo, senza però prendere nessuno tipo di impegno per ridurre questi impatti e garantire la sicurezza alimentare globale. Sulla crisi energetica il testo riconosce l’urgenza di trasformare rapidamente i sistemi energetici per renderli più sicuri, affidabili e resilienti, accelerando transizioni pulite ed eque verso l’energia rinnovabile in questo decennio, ma poi non assume impegni adeguati.
Ancora, il testo incoraggia soltanto gli sforzi per eliminare gradualmente il carbone e i sussidi - inefficienti - ai combustibili fossili. Non parla di eliminare tutti i combustibili fossili (quindi anche petrolio e gas), come sarebbe urgente e necessario, dunque consentirà il sostegno a nuovi progetti fossili.
Sui diritti umani non c’erano aspettative, e infatti il testo si limita a dire che gli Stati dovrebbero rispettare i diritti umani quando intraprendono azioni per il contrasto al cambiamento climatico. Sulla limitazione dell’aumento della temperatura globale, il documento ammette che gli Ndc (contributi determinati nazionalmente) nuovi e aggiornati evidenziano un notevole divario tra l’effetto aggregato degli impegni assunti e l’obiettivo dell’Accordo di Parigi. Si ammette che, secondo le stime, gli attuali Ndc ridurranno le emissioni globali nel 2030 di un 5-10%, mentre per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C la riduzione al 2030 dovrebbe essere del 45%. Poi però si conferma l’obiettivo dell’accordo di Parigi di contenere l’aumento della media globale ben al di sotto di 2°C, e di proseguire gli sforzi per limitarlo a 1,5 °C, ma senza fare alcun passo concreto.
Resta inoltre irrisolta tutta la partita finanziaria. Sull’impegno, non ancora rispettato, di mobilitare 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 per aiutare i paesi in via di sviluppo ad affrontare gli effetti del cambiamento, il testo si limita a sollecitare un programma di lavoro ad hoc su un nuovo obiettivo collettivo quantificato per il clima, che parta da un minimo di 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2023. I paesi in via di sviluppo hanno fatto presente che la cifra è irrisoria, considerato che recenti studi stimano fra 6.000 e 11.000 i miliardi di dollari necessari da qui al 2030 per raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni su cui si sono impegnati.
Rimane aperta anche la questione del fondo “perdite e danni”, necessario per far fronte ai danni causati dal cambiamento climatico, su cui nel testo non appare ancora niente di concreto. I paesi più colpiti, infatti, sono quelli in via di sviluppo, fra cui Pakistan, Bangladesh, Filippine e un gran numero di paesi africani e di piccoli paesi insulari: tutti paesi che non hanno nessuna responsabilità storica sul cambiamento climatico
Mia Mottley, primo ministro delle Barbados, ha chiesto che a pagare i danni siano le compagnie petrolifere. Un’ipotesi, in linea con il principio “chi inquina paga”, che prevederebbe l’utilizzo di una quota dei cospicui profitti dell’industria oil&gas per costituire il fondo. Per la prima volta in questa Cop l’argomento è entrato nell’agenda formale del vertice, ma per ora senza risultati.
È evidente comunque che siamo molto distanti da quell’azione urgente e trasformativa che sarebbe necessaria e per la quale la Cgil è impegnata da anni. Rispetto dei diritti umani, azione climatica, equità e giustizia sociale, pace, sono temi interconnessi a cui anche questa Cop non riuscirà a dare un contributo significativo. Anche per questo dovremo intensificare il nostro impegno!