Il 12 maggio la Finlandia ha annunciato l’intenzione di aderire alla Nato. A cascata seguirà la Svezia che, niente affatto turbata per una gestione della pandemia che è stata un unicum a livello internazionale, ora non vuole essere il solo paese nordico non irreggimentato nell’Alleanza atlantica. Due secoli di neutralità, nel caso svedese, e oltre settant’anni di faticoso, ma abile, equilibrio tra Est e Ovest, nel caso finlandese, cancellati nel giro di poche settimane, sull’onda di un’atavica paura dell’orso russo che porta a reputare insufficienti le garanzie militari offerte dalla clausola 42 del Trattato sull’Unione europea.
A fronte dell’espansionismo di Putin, solo il Trattato Atlantico, in particolare l’articolo 5, assicurerebbe la difesa dei due paesi. È la conclusione cui sono giunti a Helsinki sia il rapporto governativo sia la dichiarazione del Comitato parlamentare per la Difesa. In parlamento la maggioranza favorevole alla svolta è schiacciante. Anche l’Alleanza di sinistra, partner di governo dei socialdemocratici, che pure nella campagna elettorale del 2019 si era impegnata a non sostenere partiti favorevoli all’ingresso nell’Alleanza atlantica, ha capitolato: le due esponenti che fanno parte dell’esecutivo rimarranno al loro posto, anche se ai parlamentari sarà lasciata libertà di scelta.
Non c’è spazio per il dissenso: nel rapporto governativo i rischi connessi all’adesione brillano per l’assenza, come hanno notato, tra gli altri, il giornalista della Tv pubblica Magnus Swanljung e il professor Heikki Patomäki dell’Università di Helsinki. Lo studioso giudica il rapporto reazionario; nel timore di un ripetersi della “guerra d’inverno” del 1939-40 (quando la Finlandia fu attaccata dall’Urss), la popolazione si è abbandonata a manifestazioni di russofobia che non si vedevano dagli anni Trenta. Chiunque osi anche solo ricordare il contesto geopolitico in cui è maturata l’aggressione russa o, peggio, esprima posizioni antimilitaristiche, viene bollato come agente del nemico.
In Svezia le resistenze sono più forti, e non solo da parte di pacifisti, femministe, ambientalisti e del Partito della sinistra (che conferma il suo no). Se dopo l’annuncio della Finlandia non ci sono più dubbi sul pronunciamento favorevole dei socialdemocratici, nelle loro stesse fila si levano voci contrarie di rilievo, come quelle degli ex-primi ministri Göran Persson e Stefan Löfven (in carica fino allo scorso novembre), di Pierre Schori (che fu collaboratore di Palme e poi diplomatico di alto profilo) e di influenti intellettuali. Anche pezzi di sindacato (il partner storico del Partito socialdemocratico) mal digeriscono la conversione. Le ragioni: proprio quando ci sarebbe più che mai bisogno di quel neutralismo attivo (ossia non isolazionistico bensì attento a rimarcare l’intreccio tra pace e giustizia internazionale) che ha contraddistinto Svezia e Finlandia a partire dagli anni Sessanta, le due attuali prime ministre si piegano alla logica del militarismo. E poiché esso si autoalimenta, alla svolta atlantista dei due paesi nordici Mosca ha subito risposto minacciando “contromisure”.
Tuttavia ciò che la Svezia dovrebbe temere non è un’invasione russa dell’isola di Gotland (crocevia delle rotte commerciali e militari del Baltico), bensì una guerra tra Usa e Russia. A scriverlo sono Schori e il suo collega di partito Henrik Fritzon, che aggiungono: oggi nove paesi tengono in ostaggio il resto del mondo con l’equilibrio del terrore nucleare, ma questo lato del problema è completamente rimosso. Inoltre, osservano, davvero qualcuno può pensare che Trump, se rieletto (eventualità da non escludere), accorrerebbe in difesa di un paese aggredito dal suo compare Putin? Per converso, Svezia e Finlandia, così rispettose dei diritti umani, potrebbero essere costrette a intervenire in difesa di paesi come la Turchia o l’Ungheria. L’intero Baltico sarà ulteriormente militarizzato; Norvegia e Danimarca, già membri della Nato, non potranno più opporsi all’installazione di armamenti nucleari sul proprio territorio.
In molti criticano poi, in Svezia come in Finlandia, la fretta con cui è decisa una questione da cui può dipendere la vita di intere popolazioni: un procedimento che poco si addice a un sistema democratico, rispondendo piuttosto a preoccupazioni elettorali (in Svezia si vota a settembre) e alla rincorsa dei sondaggi (Finlandia).
In sintesi, la scellerata decisione dei due governi nordici segna un’ennesima escalation verso uno scenario apocalittico.