Non c’è pace nella crisi permanente. E se la crisi è indotta da un modello di sviluppo estrattivo, polarizzato tra capitalismi di stato e capitalismi liberali di mercato, in un pianeta con risorse limitate e in esaurimento, la guerra permanente, ibrida o classica, sarà assicurata.
La tre giorni della Società della Cura, a Roma dal 25 al 27 febbraio scorsi, si è dedicata a cucire narrazioni e pratiche di movimenti e associazioni, a livello nazionale, verso una primavera ancora più sfidante per le scelte di governi e imprese a livello globale.
La constatazione di abitare un mondo polarizzato e in guerra ha piegato il programma, e ha spostato in piazza una delle cinque sessioni di discussione, quella sulla situazione internazionale, per consentire di partecipare al primo dei presidi per la pace e il cessate il fuoco dopo l’invasione russa dell’Ucraina.
Dopo due anni di pandemia non è stato semplice, anche mentalmente, affrontare l’idea che ci si dovesse dare la priorità di fare i conti con uno strumento di sintesi geopolitica così primitivo come una guerra. Ma anche con una modalità vecchia, violenta, a suo modo rassegnata e impotente di viverla come la narrativa bellicista, l’invio di armi, e le false contrapposizioni tra patrioti e presunti disertori, sempre servite a accelerare le velleità imperialiste del capitalismo fossile.
La domanda che le partecipanti e i partecipanti alla tre giorni si sono posti, affrontando i temi della crisi climatica, del lavoro e della nuova economia utile per affrontarla, di una nuova interpretazione della democrazia nel segno della partecipazione e della redistribuzione, a partire dai territori, e di come leggere e assicurare la promozione di diritti sociali universali, ha attraversato letture, visioni e pratiche molto diverse, per capire come costruire l’opposizione sociale avviando una nuova stagione di mobilitazioni.
La guerra, con ancora maggiore evidenza della pandemia e del riscaldamento del pianeta, ha dimostrato l’insostenibilità della dipendenza di un Paese come il nostro da poche imprese – e Paesi – nell’approvvigionamento energetico da fonti prevalentemente fossili. Una vecchia battaglia di movimenti vecchi, come quello antinuclearista, e nuovissimi, come Fridays for future e Extinction rebellion, rimasta irrisolta da parte di governi nazionali e europei. E che oggi ci presenta il conto con bollette salatissime.
Le governance nazionale e europea che fanno? Piegano gli strumenti di misurazione della transizione ecologica alla loro incapacità di cambiare, inserendo nucleare e gas tra le energie della transizione, e, sotto la spinta di nuove economie di guerra, ci incamminano dritti nel passato riaccendendo centrali a carbone, nucleari e diversificando i dittatori-fornitori del solito vecchio gas. Dragando ancora più risorse pubbliche verso queste politiche insostenibili e coprendone i costi alle aziende, ma non a lavoratrici e lavoratori, che nel frattempo perdono il posto a centinaia per l’insostenibilità di un contesto instabile come quello cui ci siamo condannati.
Lo stesso Pnrr accresce il debito pubblico, catapultando nei territori molti progetti rimasti nel cassetto di amministrazioni pubbliche e private perché ingiustificabili e inutili per i loro abitanti. Il tutto, oggi, con il ricatto ancora più stringente dell’economia di guerra. E imponendo modifiche legislative profonde, come il decreto concorrenza, che, a valle di una pandemia affrontata sulle fragili gambe dei servizi pubblici fiaccati da vent’anni di austerity, definisce il mercato come via prioritaria per l’affidamento di gestione dei servizi pubblici locali. Obbligando gli enti locali che vorranno gestirli in proprio a giustificare il perché della propria scelta davanti all’Antitrust, che valuterà la legittimità della decisione presa.
Le realtà che hanno dato vita alla Società della Cura – oltre 450 tra comitati, sindacati, associazioni - lo hanno fatto credendo che, a fronte di questi vicoli ciechi, ci fosse la necessità di una convergenza delle lotte per porre la sfida al livello più alto: l’alternativa di società. La scelta è quella di praticare insieme il conflitto culturale e sociale che ci si presenta: lo abbiamo fatto manifestando insieme per la pace, lo vogliamo fare ancora insieme il 25 e 26 marzo, partecipando allo sciopero per il clima indetto in tutte le città del mondo dai Fridays for future per poi ritrovarci il giorno dopo a Firenze per insorgere, insieme ai lavoratori della Gkn. Consapevoli, come loro, che non si possa salvare una sola fabbrica in un Paese che non è ‘salvo’, dove scuola, sanità, diritti sono in grave sofferenza.
Ma manifestare non basterà: ogni progetto, cantiere, decreto, dovrà diventare la nostra palestra democratica, uno spazio dove insieme si ragiona, ci si mobilita, si qualifica – quando possibile – l’intervento o ci si oppone. Una classe dirigente diffusa, potenzialmente globale, al servizio di una fase drammatica, che deve trovare forza e idee per piegare e cambiare questa nuova “normalità” traumatica cui vorrebbero condannarci.