Ai partecipanti all’assemblea organizzativa Cgil è stata consegnata una scheda sul tesseramento 2015-2020 e spedita la relazione di Ivana Galli, segretaria organizzativa.
I dati sono brutali: gli iscritti scendono dai 5.539.472 del 2015 ai 5.015.741 del 2020, mezzo milione meno in cinque anni, con un picco negativo dal 2016 al 2017 (- 265.069). Negli anni successivi la perdita si riduce ma è costante. Il picco è spiegabile con una pulitura degli elenchi (un iscritto associato ad un codice fiscale), superando, per esempio, le doppie deleghe per pensioni plurime o le iscrizioni multiple nello stesso anno per chi ha cambiato rapporto di lavoro. La controprova viene dalle risorse: in molti bilanci si nota che, a un calo degli iscritti, corrisponde addirittura un aumento delle risorse.
Dal 2015 al 2020 gli attivi tengono, da 2.600.516 a 2.600.759, e le perdite si concentrano tra i pensionati. Tra gli attivi, rispetto al 2015, flettono del 15,06% industria e costruzioni; nelle reti e terziario crescono la Filcams e la Filt; flette la Flai. La Filcams passa da 469.334 a 589.030 iscritti (+ 119.696).
Possiamo supporre che gli spostamenti corrispondano alla traiettoria regressiva dell’economia italiana, che vede crescere gli occupati nel terziario debole a fronte del restringimento strutturale della base industriale e manifatturiera (cresce anche Nidil). Il dato dei pensionati è anche espressione di generazioni nelle quali la militanza nelle organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio era maggiore rispetto a quelle successive (le generazioni nate negli anni ‘40 a fronte di quelle nate all’altezza della sconfitta alla Fiat e alla fine della cosiddetta Prima Repubblica).
Se la situazione potrebbe sembrare tutto sommato rassicurante, la valutazione di Ivana Galli è giustamente di tutt’altro avviso: “[L]a nostra organizzazione non è stata in grado di intercettare in modo strutturale e integrato la frammentazione del lavoro […] [e] anche nelle grandi aziende facciamo fatica […]. Il proselitismo del sistema dei servizi […] è un tesseramento debole perché non viene preso in carico dalle categorie”.
Siamo a fronte di un triplo fallimento. Non riusciamo ad essere un punto di riferimento credibile che trasformi il servizio nella militanza per le relativamente giovani generazioni della precarietà e del lavoro povero; non trasformiamo gli iscritti dalla dimensione della tutela individuale a quella collettiva; e non siamo neppure fortissimi in tutte le aziende strutturate.
La stessa tenuta degli attivi, in realtà, segna un leggero ma significativo arretramento del tasso di proselitismo sulla platea potenziale. Sempre Galli: “Dal 2015 al 2020 sulle posizioni lavorative attive, prendendo a riferimento il 2018 e il 2019, la percentuale di lavoratori attivi iscritti alla nostra organizzazione passa dall’11,30% all’11,08%. In sostanza in Italia solo un lavoratore su 10 è iscritto alla Cgil”. Cresce il numero degli occupati senza che cresca il numero delle ore lavorate - si tratta di lavori precari, atipici ed a part time involontario - e noi non li intercettiamo perché bassissimi sono i nostri nuovi iscritti “giovani” (anche se queste fattispecie non sono più portato esclusivo delle giovani generazioni). Se il saldo sugli attivi tiene dobbiamo ringraziare i lavoratori e le lavoratrici migranti (+ 50mila negli ultimi tre anni).
Degne di nota le considerazioni sul gruppo dirigente: 12.461 le compagne e i compagni che hanno un rapporto di lavoro con la Cgil; solo il 16,2% ha età inferiore ai 45 anni, sopra i 62 anni il 41,3%, effetto per un verso dell’allungamento dell’età pensionabile e, per l’altro, rispecchiamento della composizione anagrafica degli iscritti. Ancora più interessante, e preoccupante, che solo il 26% provenga da un posto di lavoro in aspettativa o distacco sindacale. Si sta andando verso un gruppo dirigente di dipendenti dell’organizzazione, dove aver svolto il delegato nei posti di lavoro non è un valore nella costruzione dei gruppi dirigenti.
Altro dato inaccettabile, rispetto al quale occorrerebbe una clausola statutaria come quella antidiscriminatoria di genere, riguarda gli iscritti non autoctoni: 10% dell’intera forza lavoro e 20% dei nostri iscritti tra gli attivi, ma solo l’1,33% degli apparati. Se consideriamo che la distribuzione nelle categorie degli attivi è diseguale, per gli impedimenti legislativi sui posti pubblici riservati al possesso della cittadinanza e per addensamenti nel lavoro operaio e manuale povero e di cura, a fronte di categorie che vedono più del 30% degli iscritti di origine migrante la presenza negli organismi è imbarazzante. Occorre inserire un vincolo statutario su una percentuale minima per organismi e segreterie, a partire dalle categorie con una presenza superiore al 10% di iscritti stranieri.
Il prerequisito di provenire da un posto di lavoro e aver fatto pratica di delegato rimanda invece a quale idea di organizzazione abbiamo in testa per essere credibili, rispetto al mondo del lavoro che dovremmo rappresentare e organizzare.