Alcune riflessioni alla vigilia dello sciopero generale.
Il solo annuncio da parte di Cgil e Uil dello sciopero generale di 8 ore ha scatenato conservatori e reazionari di ogni risma. “Non si disturbi il santo natale degli acquisti”, “ma c’è la pandemia signora mia”, “ma come, adesso che c’è la ripresa”, “attività antipatriottica”, “sabotatori”, l’“irritazione” di Draghi, “stupito” per giunta, la Commissione contro il diritto di sciopero che dice non si può scioperare, perché verrebbe meno “l’oggettiva rarefazione” degli scioperi medesimi.
Il Pd ed i suoi dirigenti, quelli “di sinistra”, in ambasce, gli altri schierati con la Cisl. Ma cosa ci dice questa risposta scomposta se non del ruolo politico che ancora hanno le mobilitazioni e uno strumento antico come lo sciopero? Così assordante era stata la grancassa sulla scomparsa della classe operaia e dei lavoratori che in molti ci avevano creduto. Che nulla possono le mobilitazioni e gli strumenti come lo sciopero rispetto al quadro politico, quando invece una maggioranza che vede oltre il 95% di chi siede in Parlamento a sostegno di un governo che aveva trovato “una sintesi” al proprio interno, clamorosamente sconfessata dal giudizio unitario negativo delle tre organizzazioni sindacali confederali.
La pandemia ha confutato tesi trentennali sulla scomparsa e irrilevanza del lavoro vivo nella creazione del valore, quando anche a detta di Confindustria se si fermassero veramente e totalmente le attività industriali e manifatturiere, il crollo del Pil sarebbe addirittura maggiore di quel che si è registrato, e senza il lavoro manuale non operaio e quello di cura sarebbe impossibile la riproduzione sociale. La stessa litania sulla globalizzazione e sull’allungamento delle catene del valore, che già mostravano segni di deglobalizzazione, riterritorializzazione e accorciamento delle filiere, è stata sconfessata dall’accelerazione di tali processi dettati dal Covid-19.
La stessa giaculatoria sulla fine ed estinzione dello Stato e dell’atomizzazione individualistica era stata fortemente scossa dal bisogno di protezione sociale da affidare alle istanze statuali, e al sistema delle autonomie territoriali. Lo spaventoso aumento delle diseguaglianze aveva spalancato le finestre di opportunità di politiche e soggetti politici alternativi al neoliberismo del “non ci sono alternative”, rilanciando l’increspatura prodotta dalla crisi del 2008. Lo stesso capitalismo aveva fatto capolino come soggetto da indagare, per capire e risolvere crisi sempre più ricorrenti, materiali e di legittimazione.
Lo sciopero generale corre il rischio di far da coagulo di massa a tutti questi fermenti e opportunità, ed è per questo che si è scatenata una controffensiva isterica e imbarazzante. Perché questo accrocchio di tentativo di stabilizzazione centrista, basato su un ceto medio proprietario che il governo cerca di consolidare con la propria proposta di controriforma fiscale e con i miliardi destinati al superbonus del 110%, che poco spartisce con i temi ambientali e molto con l’aumento di valore delle proprietà immobiliari, necessita dell’assoluta pace e pacificazione sociale.
Lo stesso Pd, proprio il Pd, il partito della governance postdemocratica, non può permettersi, ancor più delle destre di Salvini, Meloni e Berlusconi il protagonismo sociale e politico di organizzazioni sindacali come la Cgil e la Uil. La materialità della questione sociale deve stare fuori dalla sfera della politica, come sta sostanzialmente fuori dalle urne elettorale dove gran parte degli sconfitti dalla globalizzazione alimentano l’astensionismo, o votano le forze considerate in quel momento, a torto o a ragione, antisistema.
Ancora più a fondo c’è la difesa di quel che rimane delle Costituzioni pluriclasse nate dalla lotta antifascista ed antinazista, dove il confitto di classe era riconosciuto negli stessi ordinamenti come fattore fisiologico, e in ultima istanza positivo e progressivo. In questo lo sciopero è squisitamente politico, partendo da questioni sociali e sindacali. Perché costituisce l’ultimo ostacolo alla progressiva chiusura autoritaria del quadro sociale ed istituzionale, tanto più pericolosa in quanto velleitaria. In società che si polarizzano socialmente e territorialmente, solo il conflitto sociale è l’antidoto alla putrescenza irrazionalistica e alla guerra di tutti contro tutti, che pur scatenata dall’alto verso il basso investirà la crisi dei ceti medi, sommandosi all’immiserimento ulteriore del lavoro povero, precario, schiavizzato.
La storia recente ci dovrebbe aver insegnato quali scenari si aprono, con quali rischi effettivi di derive reazionarie. Uno sciopero dunque per dare risposte alla materialità delle condizioni sociali del lavoro, per ridare dignità e per saldare questione sociale e questione democratica.